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Il dossier siriano è senz’altro in cima all’agenda del vertice che si terrà lunedì a Helsinki tra il presidente Usa Donald Trump e il suo collega russo Vladimir Putin. Anche in questo caso, i due leader sono chiamati a trovare un compromesso tra le rispettive posizioni. Compromesso che non riguarderà però il ruolo del presidente siriano Bashar al-Assad, la cui permanenza al potere è ormai fuori discussione, bensì la presenza in Siria delle forze sciite filo-iraniane, potenziale casus belli per Israele, e quella delle truppe americane là dislocate, mal tollerate da tutti e di cui lo stesso Trump vorrebbe fare a meno, salvo colpi di scena che, vista l’indole del presidente, nessuno può escludere.

Negli ultimi mesi, il quadro in Siria si è profondamente modificato a vantaggio del cosiddetto “asse della resistenza” che, oltre all’esercito regolare siriano, comprende i Guardiani della Rivoluzione islamica e i circa 80 mila miliziani sciiti inquadrati dai pasdaran. Grazie ai loro sforzi congiunti, e a non poche atrocità, Assad ha ripreso possesso di quella che la Francia mandataria definiva la “Siria utile”: quel 60% del territorio del paese in cui si concentra la maggior parte degli abitanti, delle città e delle risorse.

Da Aleppo a Homs, dai sobborghi di Damasco fino alla città di Deraaa, dove giovedì per la prima volta è tornata a sventolare la bandiera della Siria baathista, la riconquista del paese da parte di Assad e dei suoi alleati è proceduta a spron battente, archiviando definitivamente il sogno dei ribelli, e dei loro sponsor internazionali, di un’uscita di scena del presidente macellaio.

È ormai evidente che Assad punti a bypassare la strada del negoziato, malgrado le insistenze delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, e a perseguire armi in pugno l’obiettivo di riportare sotto il proprio controllo il 100% del paese. I rapidi risultati conseguiti nell’offensiva lanciata il 19 giugno nel governatorato di Deraa, uno degli ultimi bastioni della rivoluzione nel sud-ovest siriano, sembrano premiare la strategia del fatto compiuto perseguita dal presidente siriano. Le cui truppe, ed alleati al seguito, stazionano ora a pochi chilometri dalle alture del Golan controllate da Gerusalemme, pronte a reimpossessarsi anche della provincia di Quneitra.

L’avvicinamento del fronte ai confini con Israele pone un problema di non poco conto a Putin. Gerusalemme non ha mai fatto mistero di ritenere la presenza iraniana e delle sue milizie alleate in Siria una minaccia diretta alla propria sicurezza. Rappresenta un chiaro monito, in questo senso, il centinaio di strike che l’aviazione dello Stato ebraico ha compiuto dall’inizio della guerra civile per prendere di mira le forze iraniane in Siria e le strutture militari che hanno costruito nel paese. Se l’Iran pensa di fare radici in quel paese e trasformarlo in una piattaforma da cui lanciare attacchi su Israele, è il messaggio, dovrà fare i conti con la certezza di un contrattacco massiccio. Una possibilità che potrebbe concretizzarsi nei giorni in cui i combattimenti si sono avvicinati alla zona del Golan.

Disinnescare questa potenziale escalation sarà una delle priorità del vertice di Helsinki. Alleati fedeli di Gerusalemme, gli Stati Uniti di Trump presenteranno a Putin un argomento quanto mai solido: se volete tutelare Assad dalle conseguenze di una devastante guerra combattuta su territorio siriano, sarà bene che persuadiate Teheran a fare un passo indietro.

Non è un caso se, a pochi giorni dal summit, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è recato a Mosca – nel suo terzo viaggio in Russia quest’anno – per conferire con lo zar. “La nostra opinione è nota”, ha detto Netanyahu a Putin, “ed è che l’Iran deve lasciare la Siria”. “Siamo consapevoli delle vostre preoccupazioni”, gli ha risposto il capo del Cremlino.

Ben conscio che Israele potrebbe in qualsiasi momento destabilizzare la Siria con un attacco preventivo, Putin ora è chiamato ad una scelta: ignorare le richieste di Gerusalemme e rischiare di veder precipitare la situazione in Siria, dopo tanti sforzi profusi per stabilizzarla; o acconsentire, persuadendo l’alleato iraniano a ricollocare i propri miliziani a distanza di sicurezza dal confine con Israele. Una proposta che sarà senz’altro ribadita da Trump al vertice di Helsinki.

Era stato il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, John Bolton, ad anticipare questo scenario nell’intervista rilasciata all’emittente tv CBS due settimane fa. In quell’occasione, Bolton disse che l’Iran sarebbe stato il “tema strategico” al centro del colloquio tra Trump e Putin. “C’è la possibilità”, ha evidenziato il Consigliere, “di fare un ampio negoziato per far uscire le forze iraniane dalla Siria e riportarle in Iran, il che rappresenterebbe un significativo passo in avanti” nel dialogo strategico che Putin e Trump vogliono instaurare.

Non è chiaro, tuttavia, quanta influenza possano effettivamente esercitare i russi sull’Iran. L’investimento fatto dagli ayatollah in Siria è stato così intenso, in termini di risorse, uomini e mezzi, che sarà difficile persuaderli ad un’uscita di scena completa. Lo stesso ministro degli esteri russo Sergej Lavrov la settimana scorsa ha definito “assolutamente irrealistica” l’ipotesi di un ritiro dell’Iran dalla Siria.

È probabile, invece, che la Russia tenterà di spingere Trump verso un compromesso: uno scambio tra Stati Uniti e Iran in cui entrambe le potenze fanno uscire i propri uomini dal quadrante sud della Siria. Di ritiro di “tutte le forze non siriane” dalla Siria meridionale ha non a caso parlato recentemente Lavrov, avendo in mente anzitutto la base americana di Tanf che sorge alla congiunzione dei confini della Siria con quelli di Iraq e Giordania.

Data la proverbiale imprevedibilità di Trump, non sarebbe prudente al momento scommettere su questo esito o su qualsiasi altra soluzione che sarà elaborata ad Helsinki. Quanto sarà deciso nella capitale finlandese potrebbe sia allontanare lo spettro di una nuova guerra devastante in Medio Oriente, sia renderla inesorabile.

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