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La coalizione che sta iniziando a governare il nostro Paese ha un suo programma, anzi un suo contratto per usare il termine sdoganato per l’occasione, nel quale si parla anche se brevemente di Difesa. Dico brevemente perché, come da tradizione consolidata, è soprattutto sulla Sicurezza (interna) che si concentra l’attenzione dei nostri politici, quasi che quello che ci sta succedendo attorno sia molto meno importante della gestione della criminalità interna. Non è da oggi, infatti, che fior di intellettuali, politici e opinionisti ci hanno convinto di questa nostra supposta “caratteristica genetica” che dovremmo reprimere con priorità assoluta; con buona pace di chi invece sostiene che l’Italia sia un paese di eccellenze e non di delinquenze. Quindi, il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, che ci rampogna per la nostra corruzione non fa altro che sbatterci in faccia una pseudo-verità da noi stessi imposta a colpi di fictions e di libri anticasta, nei quali è solo il malaffare il protagonista.

Venendo al merito, quindi, ritengo necessario ribadire la centralità della Difesa nella salvaguardia degli interessi e della sicurezza del nostro paese, soprattutto in questa fase storica nella quale le armi hanno ricominciato a farsi sentire a distanza acustica dalle nostre coste, al centro di quella si sta confermando una delle regioni più delicate e ambite del globo. Ma a questo punto, purtroppo, non si può prescindere dal considerare la situazione complessiva delle nostre Forze Armate.

Da un punto di vista generale, innanzitutto, l’approccio concettuale accennato in precedenza, nonché il ridimensionamento del nostro impegno in Afghanistan con la sua coda di lutti e ferimenti che comunque attiravano sulle stesse attenzione e affetto, agli occhi della “gente” le ha fatte scalare di ruolo. Un “nice to have” utile ma non indispensabile per un paese senza ambizioni internazionali, buono comunque per rinforzare le Forze dell’Ordine in quelle attività di presenza sul territorio che hanno soprattutto una funzione di rassicurazione per l’opinione pubblica. Parlo di “Strade Sicure”, l’operazione che dissemina di militari alcune nostre città, preceduta anni or sono da quell’operazione “Strade Pulite” con la quale addirittura le si utilizzò per pulire le strade di Napoli e per stoccare in aree militari decine e decine di migliaia di tonnellate di ecoballe purulente. Impieghi, questi, che a parte ogni considerazione di carattere morale hanno il difetto di sottrarre i militari al loro compito principale, l’addestramento. Ma sussiste anche una prospettiva strutturale dalla quale osservare la situazione delle nostre F.A.

Prima di tutto c’è da considerare una specie di eclissi di cui è vittima l’Esercito, quella che è sempre stata la Forza Armata di riferimento e che quest’anno, con le commemorazioni dei 100 anni dalla Vittoria, ricorderemo nelle gesta dei Soldati di allora. L’Esercito, infatti, ha subito tagli profondi nella sua struttura e dovrebbe arrivare in pochi anni ad assommare circa 90.000 uomini; 30.000 meno dei Carabinieri, tanto per intenderci. Alla base di questa scelta, c’è il malinteso per il quale si potrebbe sopperire alla quantità con la qualità, alla forza con la tecnologia. È un malinteso, appunto, che rischia di trasformare la Forza Armata terrestre in un contenitore di bellurie tecnologiche o di unità di nicchia ottime per compiti specialistici ma incapaci di condurre operazioni complesse, di largo respiro e in tempi prolungati. Per queste ultime, infatti, continuano ad essere necessarie la fanteria e le unità pesanti, come tristemente dimostrato ogni giorno dalla guerra nella a noi vicinissima Siria. Corre in soccorso di questo malinteso l’illusione per la quale saremmo destinati a condurre solo “operazioni di pace”, essendo la guerra affare per altri, che non ci può e non ci deve interessare. Insomma, la ricerca di una maggiore “qualità” viene quasi utilizzata come alibi per evitare l’onere di forze cospicue, nell’illusione di poter risparmiare senza perdere in efficienza: ma l’efficienza discende da entrambi i fattori.

Inoltre, le nostre unità stanno progressivamente ed inesorabilmente invecchiando, a causa degli errori commessi in passato, quando si scelse di privilegiare l’arruolamento di personale “professionista” (in servizio permanente anche nella truppa) al posto di personale in ferma prefissata. Anche con il precedente governo la Difesa ha cercato di porre rimedio a questa situazione, ma continueranno ad essere necessari interventi di lungo respiro anche per il futuro, in modo da impiegare in altri incarichi del comparto o in altre amministrazioni coloro che per età e prestazioni fisiche non sono più compatibili con l’impiego operativo, sostituendoli con forze fresche e giovani. In questo contesto, peraltro, si inserisce una recente crisi “vocazionale” della quale si deve tenere conto, che è innescata da almeno altri due fattori.

Si tratta, prima di tutto, della creazione del Servizio Civile, che proponendo a decine di migliaia di giovani la possibilità di starsene a casa per qualche centinaio di euro al mese in attesa di una possibile chiamata in caso di calamità, sottrae molti alla “tentazione” di provare la strada del soldato che forse potrebbe riservargli molte soddisfazioni. Inoltre, è stato preso un provvedimento che annulla decenni di sforzi di carattere normativo, riportando l’arruolamento nelle Forze di Polizia all’antico, quando non era necessario prestare servizio nelle Forze Armate quali VFP (Volontario in Forma Prefissata) per avere i titoli per entrare nelle Forze dell’Ordine. E, in un paese nel quale molti vogliono fare i carabinieri, i poliziotti, i finanzieri o le guardie penitenziarie ma pochissimi il soldato, un provvedimento del genere non può che tradursi in difficoltà ulteriori. Non a caso, l’Esercito si è dovuto recentemente rassegnare ad annullare gli standard fisici per i giovani che desiderano arruolarsi, contando su un potenziamento ginnico delle reclute dopo l’incorporamento, per far fronte all’impossibilità di coprire i vuoti nei propri organici.

Quanto all’hardware delle Forze Armate, se è vero che la Marina ha in programma un importante rinnovamento della flotta e l’Aeronautica con gli F-35 proseguirà anche se parzialmente un’innovazione qualitativa e tecnologica che nel suo campo è effettivamente centrale, per l’Esercito non sono in previsione interventi strutturali che portino ad un significativo aggiornamento e ammodernamento della sua componente principe, che anche nel terzo millennio rimane quella pesante (le unità corazzate). Carenze di mezzi efficienti e penuria di munizionamento, infatti, incidono drasticamente sulle capacità della forza terrestre, limitata anche da una scarsissima disponibilità di aree addestrative e da alcuni provvedimenti legislativi per la bonifica dei pochi poligoni rimanenti da far tremare le vene dei polsi.

Infine, una riflessione in merito al cambio di gravitazione degli sforzi in ambito internazionale annunciato dal precedente governo, al quale l’attuale parrebbe intenzionato a corrispondere con una rivisitazione dei nostri impegni fuori area in termini analogamente riduttivi. In sostanza, l’Italia è ora presente soprattutto in Afghanistan, in Nord Iraq, in Somalia, in Libano, in Kosovo e in Libia, nonché nel Mediterraneo con una componente navale piuttosto articolata. Inoltre, siamo tenuti a partecipare ad altre attività nel quadro degli obblighi che ci derivano dall’appartenenza alla NATO. Per questi ultimi non c’è discussione, ovviamente, trattandosi di impegni ai quali non ci possiamo sottrarre a meno di ridiscutere la nostra appartenenza all’alleanza. Invece, relativamente alle operazioni maggiori, si tende spesso a sostenere l’inopportunità di essere presenti in teatri “lontani” anziché nelle aree più delicate attorno a noi, con particolare riferimento a quelle dalle quali si origina il flusso migratorio verso le nostre coste. Ma già con le difficoltà che stiamo incontrando per l’apertura dell’annunciata missione in Niger, si vede che questo cambio di gravitazione non è un problema da poco, soprattutto se ci si vuole limitare a compiti di basso profilo, come l’addestramento alle unità locali.

Ovviamente, inoltre, ciò non può valere per il Nord Iraq ed il Libano, visto che potrebbero incidere decisamente e drammaticamente su di noi se la situazione nel Medio Oriente peggiorasse ancora. Ma anche in Afghanistan e in Somalia le nostre Forze Armate svolgono un ruolo molto importante in termini di “politica estera”, riservando all’Italia un profilo internazionale sul quale la sola diplomazia ha spesso stentato ad attestarsi. Insomma, buona parte della credibilità che ci è riconosciuta deriva proprio da quanto hanno fatto e fanno i nostri uomini in alcune delle aree più delicate del globo: a vantaggio di tutto il Paese.

Ciò non toglie, ovviamente, che tali operazioni possano essere ridiscusse, ma senza coltivare l’illusione di poter riporre i soldati in qualche cassetto delle nostre caserme in Italia, costringendoli ad un “metabolismo basale” – per usare un avvilente termine usato pochi anni fa a fonte dei primi drastici tagli al bilancio della Difesa – col quale si limitino a respirare (lentamente) e a consumare il meno possibile. Quello che ci succede attorno, al contrario, ci deve spingere a porci la domanda su quello che vorremmo fosse il ruolo del nostro paese in Europa, nel Mediterraneo e nel Nord Africa nei prossimi anni, e su cosa possiamo fare oggi per prevenire problemi per le generazioni che ci subentreranno.

Una domanda la cui risposta implica anche una partecipazione “militare”, non solo per mostrare bandiera, indispensabile per un paese che voglia tornare a contare.

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