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Il ministro degli Affari continentali di Taiwan,  Chen Ming-tong, ha iniziato lunedì il suo tour di nove giorni a Washington: un viaggio dichiaratamente incentrato nel cercare di ricevere supporto dagli americani. Previsti incontri con alcuni funzionari governativi e un keynote speech al think tank conservatore Heritage Foundation, dove le conclusioni sono state affidate al congressista repubblicano Ted Yoho e soprattutto a Randall Schriver (nominato a dicembre dello scorso anno vice segretario alla Difesa per gli affari di sicurezza asiatica e pacifica dalla Casa Bianca: un pezzo da novanta del Pentagono).

Chen arriva negli Stati Uniti in un momento in cui le tensioni con la Cina si stanno intensificando e Pechino sta sempre più cercando di piegare i muscoli a Taiwan; la provincia ribelle è fin dai primi giorni di Donald Trump nello Studio Ovale motivo di contenzioso con i cinesi, anche perché il Presidente a dicembre 2016 accettò di parlare al telefono con l’omologa taiwanese Tsai Ing-wen (mossa preparata per mesi dal lobbista Bob Dole, che sta mettendo le sue ricche influenze guadagnate da senatore del Kansas al servizio del governo di Taiwan per facilitare entrature a Capitol Hill).

Va ricordato che gli Stati Uniti sostengono ufficialmente la cosiddetta “One-China policy”, ossia il riconoscimento di una sola Cina, fin dal 1979: da quel momento il governo americano non ha mai riconosciuto formalmente Taiwan. La posizione è stata rimarcata durante una telefonata dello scorso febbraio tra capi di stato e poi durante la visita di Trump a Pechino, dopo l’incontro cordiale e pieno di salamelecchi che Xi Jinping gli ha offerto.

Eppure, Washington mantiene con l’isola stretti contatti, che si dipanano anche sotto l’aspetto dei rifornimenti militari che le ditte statunitensi fanno arrivare a Taiwan – Pechino ha criticato il bilancio 2019 del Pentagono, in cui sono previste vendite di armamenti tecnologici a Taiwan.

Ai tempo della telefonata fu il Giornale del Popolo, l’organo stampa del Partito comunista cinese, a occuparsi della vicenda, ricordando l’importanza delle relazioni tra i due Paesi, messe a rischio da certe mosse di Trump. Ma quelli erano momenti in cui la situazione – che invece adesso ruota attorno al confronto in ambito commerciale, ma investe tanti altri dossier che riguardano le due potenze – era molto più leggera. Ora, se per Taiwan la visita di Chen è intesa come un modo per migliorare la comunicazione con gli Stati Uniti e per guadagnarne il sostegno, a Pechino è vista come un altro affronto a favore di un paese mai riconosciuto, nato quando il capo della allora Repubblica di Cina, Chiang Kai-shek, vi si rifugiò, sconfitto nel 1949 dai rivoluzionari comunisti guidati da Mao Tse-tung dopo una guerra civile durata vent’anni.

“Ci opponiamo fermamente a qualsiasi legame formale tra Stati Uniti e Taiwan”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying: “Ci auguriamo che gli Stati Uniti possano gestire adeguatamente le questioni relative a Taiwan, per intraprendere azioni concrete e sostenere il quadro generale delle relazioni Cina-Usa”, ha ribadito.

Il presidente cinese Xi ha recentemente parlato delle due sponde dello Stretto durante una riunione a porte chiuse con l’ex vice presidente taiwanese Lien Chan a Pechino, affermando che l’unificazione pacifica di Cina e Taiwan deve essere raggiunta. Il ministro cinese degli Affari di Taiwan, Liu Jieyi, invece ha più volte accusato gli Stati Uniti di giocare la “carta di Taiwan” contro la Cina: per esempio lo ha fatto dopo che gli Stati Uniti hanno firmato il Taiwan Travel Act, che promuove incontri e visite negli Stati Uniti e di funzionari taiwanesi di alto rango funzionari, e viceversa.

Tra l’altro, il dipartimento di Stato ha anche chiesto l’invio nel Paese asiatico di un contingente di Marines, e questo fa pensare che l’intenzione americana sia di aprirci un consolato, dato che il corpo si occupa della sicurezza di strutture diplomatiche formali, anche perché la rappresentanza diplomatica ha inaugurato la sede in un edificio più grande e importante. Non è cosa da poco, se si considera che presidente Xi sta più o meno “comprando – come ha scritto Pierre Haski sull’Obs – uno dopo l’altro gli stati che ancora intrattengono rapporti diplomatici con Taipei (Taiwan per i cinesi, ndr), come il Burkina Faso, ultimo in ordine di tempo ad aver rotto i rapporti con l’isola per rientrare nell’orbita di Pechino e godere dei benefici economici derivanti dalla Nuova Via della Seta”. Attualmente sono meno di venti i paesi che hanno ancora rapporti con l’isola: soprattutto statarelli del Pacifico – o il Vaticano, che con Pechino ha una relazione complessa in fase di complicatissimi negoziati.

In questi giorni la Cina ha iniziato un’esercitazione in una fascia del Mar Cinese Orientale “grossa come l’isola di Taiwan”, ha fatto sapere il ministero della Difesa di Pechino, definita ad alta complessità, “progettata per simulare un vero combattimento”, con un obiettivo per niente celato: l’azione militare per riprendersi la provincia ribelle. Non è una novità: negli ultimi mesi i cinesi hanno fatto diverse esercitazioni davanti alle acque taiwanesi, che a gennaio (e poi a marzo) sono state solcate anche dalla portaerei “Liaoning”.

Le stesse acque (il Mar Cinese Orientale sarebbe uno dei principali campi di battaglia in caso di conflitto tra Pechino e Taipei) che all’inizio di luglio hanno registrato il passaggio in navigazione libera di due navi da guerra della Marina americana, mandate per la prima volta quest’anno a segnare la presenza statunitense in quella zona. Ironia della sorte, il 23 luglio, quando finiranno le esercitazioni cinesi, è prevista anche la fine del tour washingtonians di Chen.

Sebbene dopo il 2008 le relazioni sembravano migliorare, come ha fatto notare Simone Pieranni, giornalista esperto di Asia, dopo l’elezioni del 2016 di Tsai, membro del Partito progressista democratico e pro-indipendenza dell’isola, Pechino ha iniziato a sospettare che la presidente taiwanese potesse spingere per l’indipendenza formale (che attraverserebbe una linea rossa per i leader del Partito Comunista in Cina), anche se poi Tsai ha detto che vuole mantenere lo status quo e si impegna a garantire la pace (e questo vuol dire “accontentare Pechino, perché significa dimenticare ogni istanza indipendentista dell’isola”). Ma la presidente non ha mai accettato formalmente la politica della Cina Unica, come da accordo del 1992. E questo mentre Trump ha aperto la sua azione di contrasto e confronto contro il Dragone.

In questa situazione, non sfugge che già al terzo dei 44 punti del documento che i membri di altissimo livello dell’Unione europea hanno firmato due giorni fa a Pechino, alla presenza del primo ministro cinese, Li Keqiang, c’è scritto che “l’Unione europea riconferma la sua One China policy”. Una chiara legittimazione della posizione cinese, che arriva mentre Pechino fa pressing contro chiunque non si allinei. Per esempio, la compagnia aerea Air France/Klm adesso, per evitare ritorsioni dalla Cina, indica il volo soltanto come diretto a Taipei, non più “Taipei, Taiwan” e lo stesso ha fatto dopo Air India e altre società in altri campi hanno fatto lo stesso: accontentare la Cina.

In questa fase in cui i rapporti tra Washington e Taiwan si stanno riscaldando anche come leva anti-Cina, dall’altra parte dell’Atlantico l’Europa cerca nel Celeste Impero, e nella potenza globale di Xi, una sponda per contrastare le politiche America First di Trump; un gioco che può valer bene un Taiwan.

 

Dagli Usa sostegno a Taiwan mentre l’Europa si schiera con la Cina...

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