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Gli Stati Uniti “vogliono un durevole e stabile regime di pace” nella regione del Pacifico, ha commentato così il dipartimento di Stato gli incontri che il capo della diplomazia americana, Mike Pompeo, ha avuto ieri in Cina con l’omologo Wang Yi, prima, e con il presidente, Xi Jinping, e con l’alto papavero del Politburo, Yang Jiechi, poi.

Pompeo, nella sua prima visita in Cina, ha detto che Pechino ha confermato il proprio impegno a rispettare “le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e quei meccanismi di aiuto in esse contenuti” per gestire insieme il dossier nordcoreano.

Poche ore prima, durante una conferenza stampa a Seul, il segretario americano – affiancato dai ministri degli Esteri alleati di Corea del Sud e Giappone – aveva detto che era doveroso “completare la denuclearizzazione, solo allora leveremo le sanzioni”, ma “noi pensiamo che Kim Jong-un abbia compreso l’urgenza della completa denuclearizzazione, e che abbia compreso che dobbiamo farlo rapidamente”.

La linea è stata riaffermata anche a Pechino: posizioni che sono l’onda lunga del vertice Trump/Kim, nel momento in cui comincia a uscire fuori la sostanza di un incontro che di fatto è stato un grande evento mediatico, ma che non ha consegnato niente di concreto, se non promesse e intenti – e se non una ripulitura diplomatica di Kim, trattato dalla Casa Bianca come un attore politico potabile, tralasciando tutto il peso che il regime si porta addosso, dalla Bomba allo sfregio dei diritti umani, alle operazioni clandestine (il goffo saluto militare fatto da Trump a un alto generale del regime, in questo clima polemico, è diventato un caso internazionale).

Per andare oltre quello che i critici considerano un successo quasi gratuito ottenuto dal satrapo nordcoreano (quello che ha portato l’Economist a titolare il numero di questa settimana “Kim Jong Won”), oggi Donald Trump ha detto che la Corea del Nord ha già iniziato a riconsegnare le salme dei soldati americani dispersi sul proprio territorio durante la Guerra di Corea; un gesto che dovrebbe essere di apertura.

Però, mentre Pompeo diceva che l’amministrazione americana apprezzava “tutto il lavoro svolto dalla Cina” a favore dell’incontro con Kim e parlava della “strada da percorrere per poter veramente creare pace nella penisola”, Washington faceva uscire sui giornali – soprattutto sul Wall Street Journal, che per autorevolezza e preferenza è spesso scelto dalla Casa Bianca per anticipare ufficiosamente decisioni importanti – la notizia sull’implementazione dei dazi.

Il falco repubblicano che il presidente ha voluto agli Esteri, che ora sembra essersi trasformato in colomba-pragmatica trumpiana, a Pechino ha discusso anche gli affari economici o commerciali tra i due paesi: ha ricordato che lo sbilancio commerciale “è ancora troppo alto”, Wang ha risposto che la Cina si augurava che Washington non azzardasse decisioni “unilaterali” e “non costruttive”. Xi gli ha ricordato che durante questi mesi ha avuto “un’intima amicizia personale” con Trump, e che ogni mossa azzardata americana avrebbe complicato il proseguire dei trade talks.

Oggi, però, la Casa Bianca ha confermato quanto uscito sul Wsj, ufficializzando una tariffazione del 25 per cento colpirà intanto oltre ottocento diversi prodotti cinesi (dai pneumatici degli aerei alle turbine e alle lavastoviglie commerciali), per un valore commerciale di 34 miliardi di dollari, a partire dal 6 luglio. Tariffe “indispensabili per impedire ulteriori trasferimenti sleali di tecnologia e proprietà intellettuale americane in Cina” ha detto Trump, una mossa “che proteggerà i posti di lavoro americani”, è il commento in piena linea America First.

I cinesi hanno risposto immediatamente per rappresaglia, annunciando dazi a loro volta su prodotti americani, con un comunicato prontamente diffuso a tarda notte (ora cinese) dal ministero del Commercio. Uno scontro che adesso rischia di cancellare settimane di negoziati tra americani e cinesi, che erano arrivati vicini a trovare una soluzione con cui limare di almeno un terzo il deficit commerciale sofferto dagli Stati Uniti (anche se i cinesi non erano del tutto convinti).

La direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha avvertito che le politiche commerciali dell’amministrazione Trump avrebbero probabilmente danneggiato l’economia statunitense e minato il sistema commerciale mondiale.

Ma non solo, perché i dazi America First minano anche le collaborazioni su dossier più complicati come la Corea del Nord, appunto, o il confronto a distanza e al rallentatore sul Mar Cinese.

Tutto a meno che non si tratti di un bluff trumpiano, un trucchetto da artista del deal per alzare l’asticella e arrivare a un accordo rapido e riscaldare con il lanciafiamme i trade talks al momento congelati.

(Foto: Twitter, @StateDept)

Pompeo in Cina. Missione impossibile o svolta imminente dopo i dazi di Trump?

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