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C’è una sorta di automatismo nel nostro modo di pensare e definire le cose della politica. Quanti commenti si sprecano in questi giorni sul “populismo” sempre più forte, oppure sulla divisione che percorrerebbe l’universo politico fra i “sovranisti” cattivi e gli “europeisti” buoni. Certo, queste categorie ci aiutano a orientarci sul momento, ma mi chiedo: reggeranno esse alla prova del tempo? Definiremo ancora il nostro tempo, fra qualche anno, tramite esse?

Dico subito che non lo penso. Credo, infatti, che le vecchie e più classiche categorie della modernità, liberalismo e democrazia, siano ancora in grado di farci capire, e meglio, l’attuale e indubitabile crisi della democrazia rappresentativa nelle nostre società. Ripetere un po’ di teoria non fa male. E la dottrina ci dice che quando noi definiamo democratiche le società in cui abbiamo vissuto e prosperato dopo la seconda guerra mondiale diciamo la verità, ma non tutta la verità. Usiamo cioè la parte per il tutto: chiamiamo democrazia quelle che sono state, e sono ancora nonostante tutto, democrazie liberali. Ma dimentichiamo che democrazie erano, e tali si definivano, anche quelle oltre la “cortina di ferro”, sotto il pugno sovietico: le democrazie popolari. Ciò che faceva la differenza era semplicemente il fatto che qui da noi il principio democratico, o del consenso, un principio quantitativo, aveva trovato un giusto compromesso con il principio liberale, che è invece un principio qualitativo e morale, e che è teso, attraverso una serie di mediazioni, a incanalare le pulsioni popolari in modo che non vengano mai meno i pricipi di base ce garantiscono le libertà e i diritti di tutti.

Questo processo si serve delle istituzioni e delle forme dello Stato di diritto, le quali attraverso una serie di passaggi e mediazioni istituzionali sono tese a selezionare le classi dirigenti. È questo meccanismo che, a mio avviso, a un certo punto si è inceppato, per un doppio e convergente movimento: da una parte una diffusa “ribellione delle masse”, che hanno messo in discussione, diciamo a partire dagli anni Sessanta, il principio di autorità come autorevolezza; dall’altra per lo speculare “tradimento delle élite”, che si sono chiuse a riccio e, casomai sfruttando per i propri fini le pulsioni popolari, hanno di fatto contribuito a interrompere quel processo di competizione, “circolazione” e ricambio continuo delle classi dirigenti che è proprio di una società liberale. La quale per questo ricambio, e reciproco controllo e alternanza dei poteri, non certo per la mancanza di élite, liberale si definisce. Un processo che serviva nello stesso tempo a immettere sempre nuova linfa nelle istituzioni dello Stato e, attraverso la competizione, a forgiare e a selezionare i “migliori”, cioè i competenti. Che, va precisato per sfatare un ltro mito corrente, per quanto riguarda la politica, non sono certo i “tecnici” o chi, come si dice ha avuto una “esperienza sul campo”. Costoro, anzi, con la loro visione parziale possono far danni.

In politica competente è piuttosto chi ha maturato quelle capacità di visione e sintesi che dovrebbero essere il corredo naturale di una élite degna del nome. Traendo le fila del discorso, più che di “populismo” a me sembra giusto parlare, se è lecito dire” di una “crisi democratica delle democrazie liberali”. Una crisi dovuta al venir meno, per “troppa democrazia” dello storico equilibrio fra due principi diversi, quali il democratico e il liberale, che si era storicamente realizzato nelle nostre società. Le quali oggi, in preda a un iperdemocraticismo diffuso, vorrebbero basarsi sul principio, assolutamente non liberale, dell’“uno vale uno”.

democrazia, Quartapelle

Ma quale populismo. Riflettiamo su liberalismo e democrazia

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elezioni, voto, politica, swg

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