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La crisi delle appartenenze politiche rischia di contagiare le stesse istituzioni democratiche e la democrazia rappresentativa. Il 63% degli italiani, infatti, ha recentemente dichiarato di non credere più né alla «destra» né alla «sinistra», che, tra i due «Ottantanove» (1789 e 1989: dalla Rivoluzione francese alla caduta del Muro di Berlino), hanno conformato schieramenti e partiti.

È stato lo svuotamento del «centro» politico a causare la crisi della destra e della sinistra? Il «centro» nasce come l’area dei costituzionali; dai giacobini era considerato una «palude»; in realtà, negli ultimi 200 anni è stato il «ponte» in grado di collegare rive politiche lontane. Si qualifica per il gradualismo delle riforme, per la moderazione dei linguaggi e dei comportamenti e per la cultura della mediazione, tesa a cercare punti di equilibrio validi per tutte le parti. È infine una cultura politica interclassista, che riduce le disuguaglianze tra le classi sociali.

Il «centro» politico, inteso come «centralità», è come nella rosa dei venti: rappresenta l’intersezione dove le politiche di «destra» e di «sinistra» e le nuove politiche del «nord» e del «sud» sono obbligate a passare per mantenere il Paese nell’assetto democratico. Una sorta di terra di mezzo tra diversi che hanno a cuore il bene del Paese. L’Europa voluta da De Gasperi, la scelta dell’euro nel tempo di Prodi, le grandi riforme sociali approvate sia dal centrodestra sia dal centrosinistra sono tutte passate dalla mediazione del centro politico, inteso come griglia antropologica ed etica per filtrare le scelte da compiere. È il punto di intersezione per politiche di fiducia; altrimenti la sfiducia, le paure e le differenze aumentano i consensi, ma rendono ingovernabile il Paese.

Le forze populiste o plebiscitarie certo rischiano di non alimentare una nuova fase di partecipazione costruttiva; anzi, il loro appello alla tecnica pensata come neutrale tende a limitare il dibattito sulle questioni procedurali, mentre rimangono irriducibili le distanze sul piano ideale: concorrenza, immigrazione, disoccupazione, famiglia, frontiere, opinione della rete, trasparenza, giustizia non sono discusse nel loro significato, ma utilizzate come bandiere da sventolare, attorno alle quali aggregare consenso in ricette preconfezionate da approcci ideologici o utopici. La centralità politica dovrebbe invece favorire relazione e incontro, una sorgente da cui possano scaturire norme sociali per regole comuni.

L’elettorato moderato è però orfano di punti di riferimento. La legge elettorale proporzionale ha premiato le ali e non le forze popolari e socialdemocratiche che convergevano nel centro, come è capitato in Spagna e in Germania. Per questo molti politologi riflettono sul perché in Italia il centro del sistema politico, quello da cui dipende, a ogni latitudine, la stabilità di una democrazia, si sia improvvisamente svuotato.

Una chiave di lettura ragionevole e condivisibile è che lo svuotamento dipenda da quel «malessere proprio di tante democrazie occidentali che spinge oggi molti elettori a premiare movimenti di pura protesta, movimenti antisistema. La colpa di Renzi e di Berlusconi è stata quella di non avere agito nel modo più assennato, quando ne avevano l’opportunità, per riformare le regole del gioco in modo da contenere, da tenere a bada, le spinte antisistema» (A. PANEBIANCO, «Il centro politico svuotato», in www.corriere.it/, 14 marzo 2018).

Certo, queste sono le ragioni politiche, ma c’è qualcosa di più: convergere al «centro» non significa formare o sommare forze politiche, ma permettere che tutte convergano in quello spazio per custodire la cultura costituzionale attraverso la mediazione politica. Riconoscere la cultura del «centro» politico aiuterebbe il dialogo in favore del bene di tutti. Rimane singolare un dato politico: mentre l’ala moderata italiana è emarginata, in Europa invece è rappresentata dal presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, e dal vice-presidente, David Sassoli.

La possibilità di un «centro» politico nasce da un’intuizione di don Luigi Sturzo: «Per noi il centrismo è lo stesso che popolarismo, in quanto il nostro programma è un programma temperato e non estremo: – siamo democratici, ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi; – vogliamo la libertà, ma non cediamo alla tentazione di volere la licenza; – ammettiamo l’autorità statale, ma neghiamo la dittatura, anche in nome della nazione; – rispettiamo la proprietà privata, ma ne proclamiamo la funzione sociale; – vogliamo rispettati e sviluppati tutti i fattori di vita nazionale, ma neghiamo l’imperialismo nazionalista; e così via, dal primo all’ultimo punto del nostro programma ogni affermazione non è mai assoluta ma relativa, non è per sé stante ma condizionata, non arriva agli estremi ma tiene la via del centro».

È questa la via del «possibile significativo», che non si basa sulle ideologie di «destra» e «sinistra», né sul consenso a breve durata delle categorie «nord» e «sud». Inoltre, non si tratta di tattica, ma di strategia per costruire il bene comune, da realizzare con uomini politici capaci di amministrare. Per Sturzo, non si diviene classe politica senza tradizione né senza esperienza governativa e amministrativa. Egli era convinto che proprio la debolezza della classe politica, le sue compromissioni, la corruzione, l’eccessiva centralizzazione statale, la moltiplicazione di enti pubblici fossero state tra le cause del fascismo. «I miei punti di orientamento – ricordava Sturzo – sono quattro: libertà democratica, moralizzazione della vita pubblica, riforma della struttura statale a tipo autonomistico e civico, risanamento dell’economia nazionale e, specialmente, nel Mezzogiorno».

Un programma ancora molto attuale, in cui la cultura popolarista può contagiare la cultura populista, aiutandola a considerare il pluralismo come un valore e le minoranze interne come una ricchezza, a valorizzare i gruppi e non soltanto i leader, a ripensare la democrazia rappresentativa, e non soltanto a valorizzare gli strumenti della democrazia diretta come i referendum o le votazioni online, ad andare oltre gli slogan che toccano emozioni e credenze, recuperando il rapporto tra il governante, il governato e gli enti intermedi – come la Chiesa, le associazioni, i sindacati – che li rappresentano. Lo sottolinea anche uno dei più noti filosofi politici d’Europa, Habermas: «Il populismo? Si vince tornando vicino agli ultimi».

Lo ribadiamo. Il «centro» e la cultura della «centralità» non sono un (nuovo) partito, ma sono ossigeno per il sangue del sistema politico; non sono utopia, ma l’insieme delle politiche generative dei territori, ispirate dai princìpi costituzionali e, per i credenti, dai princìpi della dottrina sociale della Chiesa.
Nel tempo della politica spettacolarizzata risuona attuale un’altra regola di Sturzo: «Quando la folla ti applaude, pensa che la stessa folla potrà divenire avversa, non inorgoglirti se approvato, né affliggerti se osteggiato. La politica è un servizio per il bene comune». Tutto questo lo chiamiamo responsabilità verso l’ambiente, il lavoro e le nuove generazioni. È la sfida che risuona anche per la Chiesa in Italia che, sulla spinta del pontificato di Francesco, desidera rilanciare la politica con la «P» maiuscola, che in controluce illumina la «S» di servizio.

(Leggi l’abstract su Civiltà Cattolica)

politica, don Sturzo, centro

Ecco l'appello di Civiltà Cattolica per una politica popolare e non populista

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