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Ci dobbiamo attendere una nuova guerra commerciale in arrivo da parte degli Stati Uniti? Le minacce di Donald Trump di alzare nuove barriere protezioniste, dopo tanto clamore da campagna elettorale atto a sostenere lo slogan “America First”, rischiano seriamente di passare ai fatti. La Casa Bianca ha infatti proposto di adottare una serie di misure, consistenti in un aumento di dazi e restrizioni alle importazioni attraverso l’imposizione di quote, dirette contro l’acciaio e l’alluminio proveniente dalla Cina.

Il problema dell’eccesso di capacità produttiva di acciaio da parte cinese non è certo nuovo e non penalizza solamente i produttori statunitensi, dal momento che la problematica viene affrontata a livello globale già da diverso tempo e l’Ocse ha persino istituito un comitato ad hoc per cercare di tamponare gli effetti negativi derivanti dalla quantità di esportazioni sottocosto in arrivo da Pechino. Tuttavia, eventuali mosse unilaterali da parte americana correrebbero il rischio di essere controproducenti e danneggiare non solo l’economia cinese, ma anche quella di altri partner commerciali molto importanti per gli scambi di Washington. Ad esempio, non tutti sanno che il primo esportatore di acciaio e alluminio verso gli USA è il Canada, mentre la Cina è solo al quarto posto, con una quota di mercato pari solamente al 10%. Dunque, se da un lato le preoccupazioni del governo statunitense verso la perdita di posti di lavoro nel settore siderurgico sono legittime, dall’altro tali preoccupazioni – e le eventuali misure di politica commerciale da intraprendere – vanno filtrate al netto della retorica populista trumpiana.

Il protezionismo americano potrebbe inoltre dare vita a rappresaglie da parte cinese, che stanno valutando la possibile imposizione di dazi alle importazioni di soia, di cui è il primo consumatore mondiale. È stato stimato che tariffe volte ad aumentare il prezzo della soia non danneggerebbero troppo i consumatori cinesi, dal momento che l’inflazione nel settore alimentare è attualmente molto bassa. Al contrario, distorsioni negli scambi del “prezioso” cereale potrebbero essere nocive anche per altri grandi produttori, come Brasile e Argentina, le cui economie dipendono in maniera molto più importante dall’export di commodities agricole.

È evidente che l’amministrazione Trump ha scelto l’approccio uni-bilaterale per risolvere le principali questioni di politica estera, rinunciando a progetti di liberalizzazione commerciale potenzialmente rivoluzionari come la Trans-Pacific Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Partnership. Tuttavia, tale atteggiamento nasconde dei rischi per i flussi commerciali a livello globale e anche la possibilità che a farne le spese, più che la Cina, siano gli altri partner occidentali come Canada e Unione Europea. Anche l’Italia è coinvolta in prima linea, dato che il nostro Paese è il secondo produttore di acciaio a livello comunitario. Un’area di libero scambio transatlantica avrebbe ad esempio consentito a Stati Uniti e UE (e anche al Canada, legato agli altri due blocchi attraverso Nafta e Ceta) di negoziare ulteriori aperture con Pechino partendo da una posizione di forza, grazie all’adozione di standard commerciali pienamente condivisi. Se invece gli USA si chiudessero senza coordinarsi con gli altri partner, potrebbe essere la Cina a trarne i maggiori vantaggi.

Al giorno d’oggi, dovrebbe essere ormai chiaro che il protezionismo non è più la risposta ottimale per risolvere problemi economici che, spesso, hanno un’origine prettamente interna. Invece, accordi inclusivi e multilaterali volti ad aumentare l’apertura e a favorire standard qualitativi elevati, dovrebbero essere la strada maestra per tutelare sia produttori che consumatori.

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