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La seconda Repubblica, quella nata sulle ceneri lasciate dall’inchiesta di Mani Pulite, non muore domenica prossima. È morta ormai da tempo ed è durata lo spazio di un mattino: quello delle elezioni con il Mattarellum, quello di un inedito e provvisorio sostanziale bipolarismo accompagnato, se non imposto, da quella legge elettorale sostanzialmente maggioritaria e favorita da un sistema politico terremotato dalla fine della Dc e dei partiti alleati (dai socialisti ai liberali, dai socialdemocratici ai repubblicani) anch’essi finiti nel macero sotto i colpi dei pm milanesi.

Non muore domenica perché in questi anni il sistema dei partiti si è ricomposto, moltiplicando le sigle, anche se in maniera spuria, con formazioni e movimenti spesso solo apparentemente lontani dalle tradizioni italiane.

Nei confini della sinistra-centro, la fine della tradizione comunista rappresentata dal Pci togliattiano prima e berlingueriano poi, ha reso il Pd – già con le sigle Ds-Pds – un partito di governo, inserendolo pienamente nel gioco politico, anche se depotenziato elettoralmente e politicamente rispetto al Partito comunista e alla Democrazia cristiana.

Dall’altro lato della barricata c’è Forza Italia, erede di una parte della Dc e anche di alcuni dei partiti laici che ne erano naturali alleati: non una vera novità, in termini di contenuti, se non fosse per il ruolo carismatico del suo leader Silvio Berlusconi. Poi c’è il partito di Matteo Salvini: la sua Lega, per quanto de-nordicizzata, non è però troppo lontana nei contenuti da quella di Umberto Bossi. Né è troppo distante dalla tradizione, missina prima e di Alleanza Nazionale poi, il partito di Giorgia Meloni. Le altre “gambe”, del centrodestra come del centrosinistra, non sono ideologicamente nuove né particolarmente influenti sul sistema complessivo.

La vera novità è ovviamente il Movimento 5 stelle. La sua forza elettorale fa sì che si possa parlare, correttamente, di un sostanziale tripolarismo del sistema politico. Ma è un tripolarismo che favorisce più che ostacolare il ritorno ai meccanismi della prima Repubblica, dato che Di Maio e compagni saranno indisponibili a reali alleanze di governo. Proporre agli altri partiti di aderire al suo programma e donare il sangue (cioè voti) ad un esecutivo monocolore pentastellato, presentare al Quirinale una lista precostituita di ministri (al di là della gaffe istituzionale) prima ancora del voto, rende ancora più evidente quanto il M5s sia fuori dal gioco politico futuro. Gioco nel quale potrebbe invece rientrare, a sinistra, la formazione di Liberi e Uguali, pur con i limiti imposti dai propri numeri.

Un gioco politico che quindi resta, o torna ad essere, sempre più quello della prima Repubblica. Quando, aperte le urne, ognuno contava in privato le proprie ferite e raccontava in pubblico le proprie vittorie, reali o parzialissime che fossero. Quando nessuno, ovviamente, pagava il prezzo della sconfitta (vedi parole di Matteo Renzi). Quando, quindi, ognuno era disponibile a entrare nella grande partita delle alleanze e delle delle poltrone di governo. Gioco, al momento, dal quale il M5s si auto-esclude.

Certo il Quirinale può giocare un ruolo importante, ma siamo lontani dai tempi del decisionismo di Giorgio Napolitano. Sergio Mattarella appare assai più garante e assai meno arbitro.

Quel che resta è quindi un voto che non darà un responso automatico alla domanda di governo del Paese, salvo un improbabile “colpaccio” del centrodestra. Ma questo non vuol dire che un governo, solido e persino duraturo, non ci sarà. Non solo perché è quasi fantascientifico pensare che un Parlamento appena eletto si possa suicidare (non è mai successo nella storia repubblicana) ma perché questo Rosatellum costruito ad arte, per citare i pentastellati, per non avere una maggioranza certa, completa potenzialmente il ritorno alla Prima Repubblica.

Non ce ne vogliano i tifosi della Seconda Repubblica, ma la Prima – degenerazioni a parte – ha fatto a lungo ed egregiamente il proprio lavoro, portando l’Italia fuori dalle macerie, reali, della guerra e dando all’Italia un ruolo importante in Europa e nel mondo in termini politici ed economici.

Quello di domenica non è quindi un voto inutile. Certo, lunedì si aprirà una fase confusa, un caos che potrebbe far saltare alcune alleanze pre-elettorali (in particolare nel centrodestra) e il cui esito non è scontato. Ma ciò che ne risulterà alla fine potrebbe evitare il rischio – paventato in Europa – di un’Italia governata da velleitaristi e populisti. È anche questo il senso delle rassicurazioni che Gentiloni manda a Bruxelles, è anche questo il messaggio che invia Berlusconi con un nome serio come quello di Antonio Tajani.

Forse la “nuova” Prima Repubblica (chiamiamola Terza Repubblica se preferite, purificandola dalle degenerazioni dell’originale) non nascerà subito e così chiaramente, ma la strada è segnata. E anche il M5s dovrebbe iniziare a farci i conti e adeguarsi. Disperdere i suoi milioni di voti nella ricerca di una futura e improbabile auto-sufficienza non è né saggio né lungimirante. Ha potenzialmente la forza per essere l’asse portante di un governo, ma se saprà aprirsi ad alleanze vere e comprendere che la politica non è solo declamazione di idee ma arte del compromesso per il bene comune.

elezioni, voto, politica, swg

Ecco perché domenica non sarà un voto inutile

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