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Ora che Lugi Di Maio e Matteo Salvini sembrano a un passo dal coronare il sogno d’amore che aveva ispirato la street art quando i due, con l’elezione concordata dei presidenti delle camere, avevano iniziato a farsi il filo, è forse il caso di interrogarsi su quel che li attende una volta entrati nella stanza dei bottoni, come la chiamava Pietro Nenni.

Non andremo a votare sotto la canicola di luglio e neppure a dicembre, come sarebbe successo se si fosse insediato il governo neutrale e di servizio che Sergio Mattarella aveva proposto come extrema ratio per uscire dal cul de sac in cui erano finiti i partiti. Resta un mistero e lo resterà probabilmente a lungo se l’iniziativa adottata apparentemente controvoglia dal Presidente della Repubblica sia stata un’abile manovra o una mossa dettata dalla disperazione.

Sta di fatto che il governo giallo verde si troverà davanti lo stesso scenario nel quale si sarebbe dovuto muovere un esecutivo di transizione. Chissà se in queste ore gli stati maggiori di Lega e Movimento 5 Stelle si pongono la domanda che in tanti, specie nel mondo economico, si fanno con una certa trepidazione: fino a quando? Fino a quando, ad esempio, i mercati saranno disposti a prolungare il periodo di grazia che ci hanno accordato in questi due mesi di stallo politico? Anche se lo spread resta ancorato, più o meno, ai valori precedenti al 4 marzo e una riedizione della crisi finanziaria del 2011 pare improbabile finché la Bce mantiene aperto lombrello del quantitative easing, Lorenzo Bini Smaghi, oggi presidente di Société Genérale e fino al 2011 membro del comitato esecutivo della Bce, ci ha ricordato su La Stampa che i mercati soffrono di horror vacui, temono cioè linstabilità politica e il vuoto di potere più di ogni cosa. Sono disposti a tollerare un periodo di confusione se allorizzonte si profila, magari a malapena visibile tra le nebbie di mille tatticismi, la sagoma di un governo in grado di riportare un minimo di ordine. Ma perdonano di rado quando lunica prospettiva credibile è il caos. I nostri eroi sembrano invece inclini a pensare che basti recitare qualche scongiuro sui poteri forti e sulle politiche di austerity per tenere a bada lo spettro della speculazione, ma ovviamente la realtà e unaltra.

La realtà è quella che si è affacciata pochi giorni fa nelle parole del commissario europeo agli Affari Economici Pierre Moscovici, che in occasione della presentazione delle Previsioni di primavera ha fatto partire una salva di avvertimento, ricordandoci che nel 2018 dovremo tagliare il deficit dello 0,3% per tener fede agli impegni presi e che finora i nostri sforzi risultano pari a zero. Significa che, volenti o nolenti, potremmo essere costretti a varare a breve una manovra correttiva da 5 miliardi. Di miliardi ne andranno trovati comunque 12,5 per evitare che con la prossima legge di stabilità scattino le clausole di salvaguardia che porterebbero ad un aumento dellIva e delle accise.

Questo nellimmediato. Resta però il problema più grave, che è rappresentato dalla scarsa affidabilità di forze che a giorni alterni invocano luscita dalleuro via referendum vedi lintervista rilasciata da Grillo alla testata francese Putsch (nomen omen) – o fanno la fila alla corte di Putin.

Lultima versione del contratto offerto da Di Maio a Salvini è una sintesi di tutto ciò che serve per entrare in rotta di collisione con lEuropa e farsi impallinare dalla speculazione finanziaria. Un governo che dovesse presentarsi in un futuro più o meno prossimo con un programma che prevede labolizione secca della legge Fornero, il reddito di cittadinanza e un non meglio precisato taglio delle tasse finirebbe per innescare con la Commissione un conflitto dalle conseguenze non facilmente prevedibili (a parte la procedura dinfrazione per deficit eccessivo che ne seguirebbe inevitabilmente). Tanto più che Bruxelles non può permettersi dopo la Brexit di lisciare il pelo a chi mostra di infischiarsi degli obblighi comunitari. Per capire che aria tira non solo nelle istituzioni ma anche, cosa più importante, tra i principali partner europei sarà importante non perdere di vista la trattativa sul prossimo bilancio dellUe, che già in partenza non si annuncia semplice.

A completare il quadro in peggio, naturalmente è il sostanziale disinteresse nei confronti dellandamento delleconomia reale e del mercato del lavoro che è emerso durante la campagna elettorale e che non ha certo trovato correttivi nelle concitate settimane che abbiamo alle spalle. A parte la generica voglia di Stato che traspare chiaramente dalle esternazioni dei leader e di non pochi parlamentari, cè qualcuno che può dire di aver compreso come risolverebbero Lega e 5Stelle i problemi di Alitalia, Tim e Ilva? In astratto nulla vieta di cullare sogni di nazionalizzazione, in forma occulta o palese poco importa. Ma vanno considerate alcune controindicazioni che scoraggerebbero qualsiasi governante munito di un minimo di prudenza. La prima si chiama debito pubblico: quello italiano viaggia, secondo solo alla Grecia, oltre il 130% del Pil. E poi c’è l’Europa con i suoi trattati e il loro guardiano la Commissione, sempre lei che per molto meno (il prestito ponte concesso ad Alitalia, qualche aiutino sotto banco all’Ilva commissariata, per restare in tema) anche nel recentissimo passato ci ha messo sulla graticola.

5Stelle e Lega, inoltre, non hanno mai digerito il Jobs Act, difficile dire se per una reale avversione alle nuove norme con cui ha disciplinato il mercato del lavoro o per semplice voglia di ritorsione contro Matteo Renzi. Si sa che, un po’ come nel caso della legge Fornero, hanno lasciato capire di volerne l’abolizione, accattivandosi in questo modo le simpatie della Cgil e delle frange più conservatrici della sinistra, ma non hanno mai spiegato compiutamente come e con che cosa sostituirlo. Nemmeno sull’articolo 18 le idee sono così chiare, basta andarsi a rivedere il rallenty delle piroette di Di Maio e Salvini in campagna elettorale. Anche in questo caso, però, bisognerà fare i conti con l’Europa, visto che proprio la flessibilità del mercato del lavoro è stato l’argomento che ha consentito a Matteo Renzi di strappare a Bruxelles un’altra flessibilità, quella sul deficit.

Beninteso, tutto ciò può esercitare un condizionamento su un governo che si riconosce parte del sistema, un sistema, quello delle liberaldemocrazie occidentali, che è recintato dai paletti invalicabili dell’economia di mercato, dello stato di diritto, dell’Unione Europea e della solidarietà atlantica. Ma se ad esprimere il governo sono forze antisistema non si può escludere che quei paletti vengano scavalcati. Anche se in tanti fanno finta di non saperlo.

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Di Carlo D'Onofrio e Augusto Bisegna

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