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Ieri, durante la conferenza stampa congiunta con la ministra degli Esteri sudcoreana, il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha detto che l’intenzione degli Stati Uniti è di essere un “close partner” della Corea del Nord, “non un nemico”.

Il capo della diplomazia americana, che negli ultimi due mesi è stato due volte a Pyongyang per pianificare l’incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un (appuntamento a Singapore, il 12 giugno), ha aggiunto che se il Nord si sbarazzerà completamente del suo arsenale nucleare, in modo verificabile e sincero, allora Washington potrà pure pensare di fornirgli aiuto economico – oro per Kim, che ha permesso al suo paese di diventare una potenza atomica, ma lo ha anche affossato economicamente, bloccato dalle sanzioni internazionali, isolato, affamato.

Pompeo ha raccontato ai giornalisti di aver parlato con Kim di come in passato l’America ha avuto relazioni “calde e costruttive” con paesi che in precedenza erano stati suoi nemici (senza far nomi: il Giappone, la Germania, l’Italia?). Siamo nel piano della gara alla diplomazia sul dossier: gli Stati Uniti, che fino a qualche mese fa muovevano le portaerei e i bombardieri nucleari nel Pacifico per trasmettere a Kim l’imminenza di un attacco, adesso offrono a Pyongyang la possibilità di diventare alleati.

Questa gara di feluche è iniziata grazie alle mosse del presidente liberal sudcoreano Moon Jae-in, a cui Kim ha prontamente risposto, certamente pressato dalla Cina – che punta a una generale armonia stabilizzatrice – e forse in parte dalle armi americane. Ora lo scenario è quello di un crisi in cui tutti gli attori in campo vogliono trovare la soluzione più eufonica, superando l’altro per slancio positivo.

Se Moon è l’architetto del dialogo globale col Nord (consapevole di non poter raggiungere il denuke nordcoreano da solo), Pompeo è attualmente il direttore dei lavori. Il segretario americano, che era preceduto da una fama da falco (lo è, sia chiaro, ndr) ha trovato la chiave per dialogare con Kim. Un mix che potrebbe mettere alle strette la Cina se giocato di sponda dai due alleati; Pechino ha cercato di anticipare i tempi diplomatici, per due volte negli ultimi mesi, richiamando a incontri diretti il satrapo nordcoreano – i cinesi sanno che non possono perdersi l’intestazione del dossier più caldo del Pacifico se vogliono costruirsi lo status di potenza globale.

Un sondaggio della Gallup coreana, la scorsa settimana ha evidenziato che la visione di Moon è quasi completamente in linea con quella dei suoi cittadini: il presidente ha un approval dell’83 per cento, i sudcoreani vogliono il dialogo con il Nord, la pace, più di chiunque altri. Però tutta quest’impalcatura trova un’enorme debolezza: quanto Kim è sincero e quanto accetterà la denuclearizzazione richiesta? Per esempio, il sito atomico di Per esempio: Pyongyang ha fatto sapere che terrà una cerimonia (il 23/25 maggio) per festeggiare lo smantellamento del sito atomico di Punggye-ri, di cui è stato annunciato lo smantellamento, pare che in realtà fosse inutilizzabile da tempo, collassato durante i vari test di esplosioni nucleari che ha ospitato.

Poi c’è un altro problema per Seul: da sempre l’amministrazione Trump sta cercando di usare il dossier nordcoreano come leva negoziale per trattare con la Cina. Agire in partnership su una questione così grossa potrebbe essere un’occasione di collaborazione in grado di aprire altre strade. E Washington potrebbe sfruttarla per arrivare a Pechino più direttamente, mettendo da parte Moon, con cui il presidente Trump non ha una grossa empatia personale.

(Foto: Twitter, @StateDept, Mike Pompeo con la ministro degli Esteri sudcoreana, Kang Kyung-wha)

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