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“Alla ricerca delle riforme perdute” oltre che uno slogan che potrebbe unire i riformisti di quasi ogni orientamento politico del nostro paese, è il titolo del secondo numero di Sfide, la rivista della Fondazione Craxi, diretta dall’ex deputato dell’Ulivo Mario Barbi. La suggestione, per ora poco più di un auspicio, che era nell’area durante la presentazione del trimestrale della fondazione presieduta da Stefania Craxi, è che questa XVIII legislatura, che dà il titolo al numero monografico della rivista, e sembra fare una grande fatica a mettersi in moto, possa trasformarsi in una legislatura sostanzialmente costituente.

Una presentazione, quella di Sfide, che si è svolta in tempi “contingentati” complice l’impegno dei relatori in Senato per ascoltare il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni in merito alla delicata situazione internazionale. Un clima da guerra fredda ha scritto qualcuno, un po’ come “congelata” appare questa XVIII legislatura che potrebbe iniziare a sciogliersi anche grazie ad eventi del genere, che possono in qualche modo trasformarsi in riflessioni comuni rispetto a temi specifici.

La presentazione del secondo numero dei Sfide giunge in una data non banale, come ha fatto notare il direttore Mario Barbi, ovvero a 25 anni esatti (ndr 18 aprile 1993) dal referendum Segni che pose le basi per la fine della prima Repubblica. In quel periodo, ricorda Barbi, c’erano grandi speranze di un futuro radioso per la seconda Repubblica, per una democrazia finalmente decidente; speranze, come sappiamo bene, che per lo più sono andate deluse. Sono due i punti su cui si è concentrata la presentazione della rivista, che ha visto presenti, oltre a Stefania Craxi, i senatori Tommaso Nannici, del Pd, Andrea Cangini, di Forza Italia, Armando Siri della Lega, coordinati da Nicola Carnovale, segretario generale della fondazione Craxi. Il primo punto è strettamente legato al voto del 4 marzo e riguarda la governabilità del paese, mentre il secondo riguarda il rapporto tra Europa e Italia, alla luce della richiesta di discontinuità rispetto alle tecnocrazie europee giunto proprio dalle urne.

Probabilmente, questa l’idea del direttore Barbi, ci si è eccessivamente cullati nell’illusione che nella seconda Repubblica con il voto si coniugassero sia la richiesta di governo sia la necessità di rappresentanza. Bisogna prendere atto, questo l’auspicio comune espresso dai relatori, che non è cambiando la legge elettorale che si può pensare di cambiare l’assetto istituzionale del paese, ma bisogna passare attraverso un vero e proprio cambio della forma di governo. “Bisogna riaprire il cantiere delle riforme”, chiarisce Barbi, avendo il coraggio di sciogliere i blocchi del referendum del 4 dicembre, partendo dal presupposto che una riforma costituzionale deve essere voluta, costruita e votata da tutti i partiti.

Addirittura di “moratoria sulla discussione della nuova legge elettorale” parla Stefania Craxi. Cambiare solo la legge elettorale – tentazione e allo stesso tempo scorciatoia golosa per i nostri partiti – rischia di essere un surrogato del cambiamento istituzionale – della necessaria “rottura costituzionale” – di cui il paese necessita: il passaggio ad un sistema presidenziale. Tentare nuovamente e artatamente di introdurre un cambiamento della forma di governo tramite la legge elettorale si scontrerebbe – secondo la senatrice – con la realtà.

Ambire ad un tale cambiamento all’inizio di questa diciottesima legislatura, che sembra nascere in salita, può apparire come un atto di ottimismo senza eguali. Soprattutto, come fa notare Andrea Cangini, in un tempo in cui la politica raramente è apparsa impotente come ora. Sarebbe certamente un modo per renderla migliore, per farla percepire diversamente ai cittadini, che già potrebbero esprimere un giudizio negativo all’alba di questo quinquennio. Soprattutto dai tanti tentativi falliti di riformare il nostro sistema costituzionale, anche in tempi recentissimi, bisognerebbe prendere spunto per portare al traguardo le riforme . A questo riguardo la rivista contiene alcuni documenti interessanti, che nella rivista prendono il nome di “lettere dalla storia”: dal messaggio inviato alle Camere dal Presidente Cossiga nel 1991 sull’urgenza delle riforme, al saggio di un giovane Craxi che, sulle colonne di Avvenire nel settembre del 1979, intuisce la necessità di un passaggio da una democrazia bloccata ad una democrazia dell’alternanza, tramite una repubblica presidenziale.

Proprio nel messaggio alle Camere del 1991 Nannicini individua una delle tante occasioni perse dal nostro paese negli ultimi quarant’anni. Il Senatore torna al referendum dello scorso 4 dicembre, anche per riconoscere l’errore commesso dai proponenti nel politicizzare le riforme; un errore, secondo il senatore Dem, però commesso anche da chi si è schierato sul fronte del No. Costruire un nuovo blocco di riformatori, sempre scongelando i blocchi dell’ultimo referendum costituzionale, è l’obiettivo che ci si deve porre, senza dimenticare però, ammonisce Nannicini, che il punto di partenza necessario per approdare ad un successo è quello di analizzare ed esplicitare i motivi che rendono necessarie queste riforme. Il tutto in un clima costituente e partecipativo di cui nel passato, a nostro giudizio, non c’è traccia.

Alla base di questo processo, fanno notare sia Nannicini sia Armando Siri, deve però esserci la responsabilità e la voglia di cambiamento. Entrambe necessarie ed entrambe un po’ assenti nell’agone politico e nella nostra società narcisistica.

Difficile etichettare quanto accaduto ieri come un clima di concordia o di unità su cui lavorare per un futuro riformatore, ma se da una parte le parole di Cangini di Forza Italia tradivano un certo imbarazzo per l’attuale l’immobilismo della politica, era altrettanto possibile intravedere una visione comune sulle possibili riforme tra Stefania Craxi e Tommaso Nannicini. Difficile per ora cogliere segnali di ulteriore disgelo in un clima che – anche ieri alla presentazione di Sfide – appariva di grande attesa rispetto alle decisioni del Presidente della Repubblica. Attesa che si è trasformata in grande prudenza rispetto agli scenari del futuro assetto del governo.

Dagli errori del passato, dalle occasioni mancate, dalle possibilità disperse negli ultimi quarant’anni, è necessario ripartire per produrre un nuovo sforzo riformatore, perché, come ricorda la rivista nel suo sotto-testata “Non c’è futuro senza memoria”.

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