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Facebook, il social network più popolare e usato al mondo, da poco coinvolto nello scandalo senza precedenti di Cambridge Analytica, è al centro di una nuova bufera. La compagnia fondata da Mark Zuckerberg avrebbe infatti dato accesso ai dati personali di alcuni dei suoi utenti ad almeno quattro società cinesi, una delle quali – Huawei – nel mirino delle autorità americane perché considerata una minaccia alla sicurezza nazionale.

I LEGAMI COL GOVERNO CINESE

In particolare, riporta il Washington Post, la piattaforma avrebbe siglato accordi di condivisione dei dati con quattro big cinesi nel 2010.
Tra queste c’è il colosso Huawei (oltre a Lenovo, Oppo e Tcl), uno dei principali produttori di smartphone, apparecchi elettronici e infrastrutture per le telecomunicazioni, sospettata da tempo di avere legami con l’intelligence di Pechino.

GLI ALLARMI

Il problema in questione, tuttavia, non coinvolge solo aziende cinesi, ma il rapporto con i big tecnologici di Pechino è considerato particolarmente delicato. I servizi segreti americani hanno più volte lanciato allarmi sui pericoli, per Washington e i suoi alleati, posti da hardware e software made in China. Anche il Congresso americano si è espresso di frequente su questo tema, e il Pentagono ha agito direttamente vietando al personale militare di acquistare prodotti a marchio Huawei.

LA RISPOSTA DI HUAWEI

Non si è fatta attendere la risposta della compagnia asiatica, che in una nota ufficiale respinge le nuove accuse dicendo che “come tutti i principali produttori di smartphone, Huawei ha lavorato insieme a Facebook per rendere i suoi servizi maggiormente fruibili da parte degli utenti. Huawei”, precisa il gigante cinese, “non ha mai raccolto né archiviato alcun dato degli utenti di Facebook”.

LE INTESE SIGLATE

In tutto, Facebook ha firmato intese di condivisione dati con almeno 60 costruttori, tra cui Apple, Amazon, BlackBerry, Microsoft e Samsung negli ultimi dieci anni e iniziando prima che le app di Facebook fossero largamente diffuse sugli smartphone.
Gli accordi hanno consentito al colosso di Menlo Park di espandersi e alle imprese di offrire ai clienti servizi popolari, come la messaggistica, l’icona “like” e le agende. Ma questi stessi accordi, la cui ampiezza non è stata finora rivelata, secondo il New York Times sollevano timori sulla policy del gruppo in tema di protezione dei dati personali e sul rispetto di una delibera del 2011 della Federal Trade Commission in materia di consenso.

L’ACCESSO AI DATI

Le intese, infatti, avrebbero consentito alle aziende di di accedere ai dati degli amici degli utenti senza esplicito consenso, anche dopo che Facebook aveva dichiarato che non avrebbe condiviso con nessuno queste informazioni. Alcuni costruttori possono rintracciare informazioni personali anche da amici degli utenti che rifiutando condivisioni. La maggior parte di questi accordi sarebbe, inoltre, ancora in vigore, anche se da aprile, sull’onda del caso Cambridge Analytica, Facebook ha cominciato a revocarle.

LE RASSICURAZIONI DI MENLO PARK

Facebook ha naturalmente certato di rassicurare i più preoccupati circa i controlli a cui sono sottoposti tutti gli accordi di cooperazione. Ma le polemiche che riguardano la piattaforma stanno montando, e non solo in Occidente.

FACEBOOK IN ASIA

Il colosso di Menlo Park conta ben 828 milioni di utenti nella regione asiatica, e ciò nonostante sia escluso dall’accesso in Cina. L’Asia è il principale mercato del social network, e quest’ultimo si ritrova ad affrontare sfide di natura diversa rispetto a quanto sta facendo altrove. Mentre negli Stati Uniti e in Europa si gestiscono dinamiche tipiche dei Paesi democratici, come privacy e sicurezza dei dati, in altre parti del mondo – soprattutto dove vi sono forme di governo autoritarie, Facebook è considerato in molti casi uno dei pochi canali disponibile per la libera espressione e per la fruizione di contenuti virtuali altrimenti non disponibili. Il fatto però che i dati degli utenti siano apparentemente estraibili con facilità espone Facebook ad un grosso rischio, ovvero quello di diventare uno strumento nelle mani di chi vuole reprimere il dissenso politico.

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