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L’ultima piroetta diplomatica sul summit di Singapore tra Donald Trump e Kim Jong-un si è consumata ieri alla Casa Bianca, dove il presidente Usa ha ricevuto Kim Yong Chol, numero 2 del Comitato Centrale del partito coreano dei lavoratori e intimo del Maresciallo con un’intera carriera alle spalle passate a servire il regime in varie vesti, tra cui quella di capo dell’intelligence militare.

A otto giorni dall’improvvisa cancellazione dell’atteso vertice da parte di Trump, quest’ultimo al termine del meeting di ieri ha annunciato ciò su cui la stampa aveva speculato per un’intera settimana: il 12 giugno il summit si terrà regolarmente, e Stati Uniti e Corea del Nord cominceranno a discutere della promessa fatta più volte quest’anno da Kim Jong-un, ossia procedere alla denuclearizzazione della penisola coreana. “Io e il presidente ci incontreremo il 12 giugno”, ha affermato Trump, che si dice convinto che sarà un “successo”.

Kim Yong Chol era arrivato a Washington da New York, dove giovedì ha avuto un lungo colloquio con il Segretario di Stato Mike Pompeo. Teoricamente, non avrebbe potuto allontanarsi dalla Grande Mela, perché è oggetto di sanzioni da parte degli Usa per una serie di misfatti, tra cui il cyberattacco alla Sony Pictures del 2014. Ma niente ha potuto fermare il desiderio di Trump di mostrare al mondo la sua determinazione a incontrare a tu per tu il Maresciallo e a raggiungere un risultato tangibile sul fronte più caldo che ha visto impegnata l’amministrazione Trump fin dal suo esordio.

C’era inoltre un motivo particolare per concedere a Kim Jong Chol un’eccezione: con sé aveva una lettera di Kim Jong-un per Trump, probabilmente la risposta che il leader coreano ha voluto dare alla missiva che il primo gli ha indirizzato il 24 maggio. “Questo (incontro) doveva letteralmente essere la consegna di una lettera”, ha commentato Trump dopo aver incontrato l’inviato nello Studio Ovale, “ed è finito col diventare una conversazione di due ore con il secondo uomo più potente della Corea del Nord”.

“È stato un ottimo incontro oggi. Penso che sia un grande inizio”, ha detto ai reporter il capo della Casa Bianca riferendo loro del colloquio. Il pour parler con il numero 2 della gerarchia nordcoreana è servito a risolvere i problemi e i malumori seminati in questi giorni lungo la strada per Singapore, in particolare la polemica innescata dal vice-presidente Usa Mike Pence e dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, rei di aver parlato di “modello Libia” per definire il percorso cui si dovrebbe avviare la Corea del Nord con il suo programma atomico.

“È tutto finito”, ha detto Trump, dichiarando chiuso l’incidente, “e ora stiamo per trattare un affare e cominciare un processo”. Il presidente si attende “risultati davvero positivi” dall’incontro del 12, ma ha anche chiarito che quel giorno segnerà solo l’inizio di un lungo ed intricato percorso.

“Non abbiamo intenzione di andare (a Singapore) e firmare qualcosa il 12 giugno”, ha precisato The Donald. “Penso che ci saranno dei risultati positivi alla fine, ma non in un solo incontro”, ha aggiunto, spiegando di non aver mai creduto che “tutto funzionasse in un solo meeting. Penso che debba essere un processo, ma la relazione si sta costruendo e questo è molto positivo”.

Le dichiarazioni di Trump chiariscono l’evoluzione del pensiero della sua amministrazione, passata dall’entusiasmo iniziale per un auspicabile successo storico del primo summit tra un presidente americano e un leader della Corea del Nord alla cautela per un “processo” che durerà probabilmente mesi se non anni. È ormai chiaro d’altronde che Stati Uniti e Corea del Nord non concordano, né da un punto di vista semantico né operativo, sul significato di “denuclearizzazione”.

Appena una settimana fa, Trump parlava della possibilità che la Corea del Nord smantellasse il suo arsenale nucleare “in un periodo molto breve”, e il suo segretario di Stato Pompeo spiegava di attendersi una “rapida denuclearizzazione, totale e completa, che non si estenderà nel tempo”. Ma queste aspettative sono sempre sembrate incongruenti con le convinzioni di molti analisti, convinti che la Corea del Nord intenda coinvolgere gli Stati Uniti in un processo lungo e complesso, dall’esito non scontato e pieno di ostacoli.

Il primo ad essere convinto di questa realtà è lo stesso Trump. “Non sarebbe meraviglioso”, si è chiesto, se “tutto fosse concordato improvvisamente dopo essere stati seduti allo stesso tavolo per un paio d’ore?”. Non andrà così, dice il tycoon, convinto che sarà necessario “un certo periodo di tempo”. Rimane, comunque, l’ottimismo sulla meta finale, alimentato dalle ripetute affermazioni che Kim Jong-un ha fatto anche in questi ultimi giorni.

Kim “vuole vedere che (la denuclearizzazione) accada”, dice Trump. “Penso che vogliano farlo, so che vogliono farlo. Vogliono svilupparsi come paese”, ha aggiunto il presidente. “E a un certo punto, speriamo (…) per il bene di milioni di persone, un accordo verrà fuori”.

Gli Stati Uniti, naturalmente, devono chiarirsi le idee su che cosa intendono concedere alla Corea del Nord in cambio alla rinuncia del loro arsenale. Più di qualcuno ritiene che i coreani intendano trattare sulla presenza del personale militare americano in Corea del Sud, 28.500 soldati che da 60 anni presidiano la fragile tregua con cui si è conclusa la guerra inter-coreana del 1950-53. Ci ha pensato però il Segretario alla Difesa James Mattis, parlando ieri ad una conferenza sulla sicurezza a Singapore, a togliere dal tavolo questa carta, sostenendo che ogni discussione sulle truppe Usa sarà “separata e distinta” da quelle che condurranno Trump e Kim a Singaporfe.

Per il momento, Trump si dice invece disposto a sospendere l’approccio della “massima pressione” elaborato nel corso di questi ultimi mesi, che prevede lo strangolamento dell’economia del Nord attraverso sanzioni stringenti. “Non voglio più usare il termine ‘massima pressione’”, spiega il presidente, “mentre stiamo “andando così d’accordo”.

Quale segno di buona volontà, Trump annuncia inoltre di aver bloccato una nuova tornata di sanzioni che il Ministero del Tesoro aveva approntato e che erano pronte a diventare operative. “Tutto rimarrà com’e per ora”, chiarisce Trump. “Non ho intenzione di introdurle (le sanzioni) se non nel caso i colloqui fallissero”.

Chiarito cosa ci si può attendere e cosa no dal summit, Trump ha spiegato che a Singapore potrebbe essere discussa anche la sigla di un trattato di pace che ponga definitivamente fine alla guerra del 1950-53, conclusasi con un mero armistizio. “Abbiamo intenzione di discuterne prima dell’incontro. Questo è qualcosa che potrebbe scaturire dal meeting”.

Usando le categorie trumpiane, l’incontro di ieri alla Casa Bianca si può dunque definire un grande successo, perché riapre una volta per tutte la possibilità di un risultato diplomatico su cui tutti gli attori coinvolti si dicono convinti. Anche se non si concluderà con un Nobel per la Pace per il presidente Usa, il summit di Singapore segnerà l’inizio di un percorso lungo e imprevedibile che potrebbe concludersi in qualunque modo ma che senz’altro farà la storia.

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