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Martin Heidegger diceva che davanti alla morte l’uomo trova la sua autenticità. È questa una buona descrizione della spinta che l’ipotesi di elezioni anticipate o di un governo neutro ha prodotto in tutto il sistema politico italiano. Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno imboccato in modi diversi la strada per dare soluzione all’impasse, persuadendo Silvio Berlusconi a lasciar partire il governo dell’astensione bonaria, secondo la felice espressione di Giovanni Toti, senza traumi e fratture. Ma anche il Pd ha tirato un sospiro di sollievo, vedendo allontanarsi le forche caudine elettorali oltre la frontiera della torrida estate.

Eccoci qui, adesso, a guardare Di Maio e Salvini inseguiti dai cronisti per le strade di Roma tra un incrocio e l’altro, contemplando il piccolo capolavoro che Berlusconi è riuscito ad immaginare per poter garantire l’unità del Centrodestra e l’esclusione di Forza Italia dalla maggioranza. Lo stesso Sergio Mattarella, che auspicava una soluzione politica, si troverà tra pochi giorni inevitabilmente come terzo protagonista, incaricato di aiutare e correggere, se servirà, la costruzione di questo esecutivo nuovo, sotto ogni punto di vista, con il sollievo di poter tornare a fare normalmente il presidente della Repubblica tra poche settimane.

Certo, la sinistra ha subito richiamato l’opinione pubblica sul rischio per questo esecutivo giallo-verde, capeggiato dai leader di due movimenti populisti, sovranisti, regressivi e antieuropei, come loro amano dire. Proviamo a ragionare diversamente, per una volta. Vale in questo caso, infatti, quanto disse Indro Montanelli a proposito di Berlusconi nel 1994: piaccia o no occorre vaccinarsi, assumendo piccole quantità virali, per salvarsi perfino da un’epidemia ritenuta pericolosa.

La prima sfida del governo Lega-M5S è esattamente sconfessare l’idola tribus: dimostrare che non si tratta di un’anomalia patologica, ma di due progetti politici nati per contrastare la gestione delle istituzioni, e non le istituzioni stesse. Essi devono adesso guidare lo Stato, e benissimo, supportati dalla consapevolezza che ambedue hanno fatto personalmente di tutto per essere a questo punto, e forse anche per esserci insieme.

Il secondo snodo è legato, invece, al come produrre un governo che passi il vaglio severo del Quirinale. Fin qui la linea è quella giusta, ossia privilegiare il programma e non i nomi, e trovare una ridotta contrattuale che possa, al contempo, far mantenere trasparenti le rispettive identità elettorali, rendendo però anche fattibile e comprensibile la coabitazione tra di esse in un’unica squadra.

Difficile, si dirà, ma non impossibile. Si tratta, in ogni caso, dell’apertura di un periodo estremamente stimolante della nostra storia, il quale, comunque andranno le cose, può innovare molto, specialmente sul piano degli stili e dei modi di essere, non dominati più dalla volontà individuale di potenza ma dalla semplicità naturale dei comportamenti.

L’impopolarità Dem è derivata, infatti, soprattutto da una manualistica distanza che il loro modo di governare ha stabilito con gli italiani. La grande delusione dopo l’ubriacatura di massa per Renzi ha prodotto una disaffezione reattiva violenta verso il progetto riformatore del Giglio magico, accompagnata ad una sparizione completa della vecchia sinistra aristocratica.

Il voto del 4 marzo ha disegnato un’Italia di destra, comunitaria e spaventata, divisa territorialmente da esigenze divergenti, ma accomunata dal volere qualcosa di altro dal Renzismo e altro dalla retorica progressista.

La Repubblica adesso sta mettendo alla prova questa volontà. E il sistema, per fortuna, lo sta permettendo. Il nascituro governo è espressione dell’ineluttabile, e della connessa ragionevolezza che vi è stata in Forza Italia di non impedirne la necessità. Tanto più che, come si sa, in politica si vive dell’agenda quotidiana. E fin tanto che la popolarità dei 5Stelle e della Lega resterà costante, o crescente, l’Italia avrà un governo che potrà procedere in avanti, anche senza che il reddito di cittadinanza e la flat tax siano realizzati nella loro integralità.

Per Salvini e Di Maio l’importante ora non è uscire dall’Euro e abbracciare la Russia o l’America, ma dare soggettività politica alla nazione, rianimare lo spirito e l’energia sopita di un popolo stanco e vecchio, fare in modo che la macchina sociale sia rivitalizzata da un diverso dinamismo, da una carica di novità e di speranza, sapere che l’immigrazione si gestisce e non subisce, che in Europa si realizza se stessi e i propri sogni nazionali, non subendo unicamente gli egoismi degli altri. Tutta questa volontà profonda della nostra nazione proletaria, come la definiva Enrico Corradini, non può essere gestita soltanto con logicistici e capziosi calcoli intellettuali o con tecnicalità troppo lucide e raziocinative, ma con un sentire che si comunica restando con i piedi per terra, assieme alla gente, e non sopra le loro teste e le loro vite.

Questo governo, se sarà, ha l’obiettivo primario di far comprendere agli italiani che il voto conta, che la politica può non essere distante, che la democrazia è uno strumento che pesa ancora, e che l’arma più potente che un popolo ha in mano è la sua scelta di cambiamento, di molto superiore a lobbie, poteri internazionali e finalità globali astratte e asfissianti.

L’auspicio, dunque, sobrio e distaccato è che Lega e 5Stelle riescano non solo a dare una stabilità temporanea al Paese, ma che la fiducia nella democrazia possa trionfare di più e meglio nel cuore della gente, a partire da questa Legislatura anomala che si è aperta nel travaglio dell’irrazionalità

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