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Venerdì il ministro degli Interni italiano, Marco Minniti, ha illustrato a Washington la strategia italiana per quel che riguarda il controllo dell’immigrazione mediterranea; strategia che per il Viminale non è più semplicemente difensiva, “in attesa degli sbarchi come se fossero ineluttabili”.

Ora, spiega Minniti ai giornalisti italiani presenti all’incontro stampa, le “cose sono cambiate”: è un passaggio netto e significativo dal significato politico-elettorale: “Solo nel giugno scorso tutto il dibattito europeo girava sugli hot spot che si dovevano aprire in Italia per ricevere i migranti”, dice il ministro, mentre oggi “siamo all’opera per mettere in sicurezza i confini anche meridionali della Libia, abbiamo la missione congiunta in Niger, nuove regole europee che non scaricano la responsabilità della prima accoglienza solo sull’Italia”.

Ormai, ha spiegato Minniti anche per sottolineare agli americani l’efficienza del suo piano italiano, “non ha molto senso contare i barconi con cadenza settimanale, dobbiamo guardare alle tendenze di medio periodo”.  I numeri, per dirla come l’ha detta il ministro, “sono incoraggianti”: il 2017 si è chiuso con il meno 32 per cento degli arrivi, 62 mila persone in termini assoluti. E i dati del Cruscotto statistico del ministero dell’Interno confermano le sue parole, “ma noi siamo prudenti”.

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Minniti ha incontrato i vertici del dipartimento di Giustizia di quello della Homeland Security, poi il capo dell’Fbi Chris Wray. “Il rapporto con gli Stati Uniti non si è affatto affievolito. Gli americani contano con ancora maggior forza sull’Italia”, dice, quasi a voler rassicurare che la cooperazione nel settore sicurezza tra Roma e Washington è ancora un punto focale della relazione (e qui pare intravedersi un nonostante sottinteso: ossia, nonostante l’Europa abbia cercato di evidenziare la distanza delle visioni di Bruxelles da quelle della Casa Bianca trumpiana).

“Negli ultimi cinque anni mi pare – spiega a Formiche.net Arturo Varvelli, Co-Head del Middle East and North Africa Centre dell’ISPI – che sempre di più i temi di sicurezza interna dei paesi e quelli di politica di difesa-esteri e sicurezza più ampia si siano saldati, a causa, soprattutto, dei fenomeni come migrazioni e terrorismo che travalicano per definizione i confini nazionali. Quindi è sempre più facile vedere collaborazioni tra ministri degli interni, le cui politcy prima difficilmente viaggiavano fuori dai confini nazionali”. Minniti, aggiunge Varvelli, poi è “un ministro particolare” che ha supplito all’azione del ministro degli Esteri e a cui sostanzialmente Palazzo Chigi “ha affidato la gestione delle relazioni con la Libia nel suo complesso”. Di fatto, “Minniti vive all’estero, ancor più che in Italia, un momento piuttosto fortunato: la gestione della lotta ai traffici e al contrasto al terrorismo è senza dubbio apprezzata (è di ieri, per esempio, l’elogio di un settimanale severo come l’Economist, ndr). E non può che essere elogiato da un’amministrazione americana che ha fatto del contrasto all’immigrazione uno dei principali punti programmatici”. Poi, aggiunge Varvelli, “è inutile negarlo: il senso della visita è anche nel rafforzamento della propria immagine e di consolidamento di legami personali. Insomma, Minniti lavora da futuro premier…”.

Gli Stati Uniti, secondo il ministro, considererebbero di fondamentale importanza le azioni politiche intraprese dall’Italia per la stabilizzazione della Liba, “ci riconoscono una funzione fondamentale. E ho avuto l’impressione che non si aspettassero mutamenti così rapidi”. Il riferimento è all’immigrazione, perché di fatto la situazione della crisi libica è ancora in stallo dopo anni: al di là dei dati, è però innegabile che il problema debba essere “affrontato nella sua globalità, compresa l’ipotesi di stabilire vie legali di migrazione dall’Africa e compresa la costruzione di un vero piano europeo di rafforzamento del processo Onu sulla Libia”, spiega Varvelli.

In questi giorni il ministro degli Esteri italiano, Angelino Alfano, ha intrapreso una rotta opposta nel suo primo viaggio da capo dell’Osce, ma ha affrontato lo stesso tema a Mosca: la Farnesina fa sapere che Alfano e il suo omologo russo hanno trovato punti di contatto nel dossier libico, dove l’Italia ha sempre cercato di mantenere una linea aperta e dialogante sebbene sia (rimasto) il principale paese alle spalle del processo sponsorizzato dall’Onu a Tripoli, mentre la Russia sia lo sponsor strategico della milizia con ambizioni presidenziali che si oppone al piano onusiano dall’Est libico.

Su questo dossier, in realtà, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno dimostrato di voler restare al minimo del coinvolgimento – marcando un’altra distanza formale con l’amministrazione precedente, che era stata sponsor (insieme all’Europa e soprattutto all’Italia) dell’insediamento forzato a Tripoli di un premier con l’obiettivo di riunificare il paese. Per Trump la Libia è una questione soprattutto di guerra al terrorismo: la Casa Bianca sa che il territorio libico, nonostante la caduta della roccaforte di Sirte, è ancora zeppo di baghdadisti dispersi in clandestinità, ed è battuto da altre sigle collegate al terrorismo internazionale.

È un territorio di caccia, dall’alto (attraverso i droni che decollano da Sigonella), più che un dossier politico. Però “noi abbiamo più chiaro il quadro in Libia, gli americani in Siria e in Iraq. Ci stiamo scambiando le informazioni per cercare di capire che fine abbiano fatto i combattenti dell’Isis provenienti da altri Paesi. Sarebbero circa 25 mila, secondo le stime”, ha detto Minniti.

Immigrazione e Libia, perché la missione Usa di Minniti conta

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