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Nella Demonomania degli stregoni, apparsa nel 1580, Jean Bodin accusava le discendenti di Eva di essere in combutta con Satana. Per neutralizzarne la componente demoniaca, il teorico dell’assolutismo moderno sosteneva la necessità di escludere il gentil sesso da tutti i luoghi di comando, relegandolo unicamente nella sfera domestica. Più liberale era invece il pensiero di un contemporaneo di Bodin, Michel de Montaigne. Pur convinto della superiorità intellettuale degli uomini, l’autore degli Essais era incline a riconoscere le ingiustizie e le prevaricazioni di cui erano vittime le donne nel secolo della Controriforma.

Egli, inoltre, non era indifferente al fascino femminile, come  attesta l’ammirazione mostrata per il ritratto di una celebre e chiacchierata dama del Rinascimento italiano dopo una sosta a Roma nel 1581. Oggetto di biografie spesso romanzesche o fantasiose, la vita di quella che per il filosofo francese era “senza paragone, la più amabile donna che fosse allora a Roma e anche altrove” (Journale de voyage) adesso è meno misteriosa. È stata infatti ricostruita da Gigliola Fragnito attraverso accurate ricerche d’archivio (La storia di Clelia Farnese, il Mulino).

Figlia illegittima del cardinale Alessandro Farnese, Clelia nasce il 22 ottobre 1557 a Roma o forse a Parma, dove il padre si era trasferito durante il pontificato di Paolo IV (1555-1559). Nulla di strano negli amori mercenari di un cardinale anche negli anni di Papa Carafa, che – al contrario dei suoi predecessori – cercava di contrastare energicamente ogni comportamento trasgressivo, con un occhio particolare per “le cose fatte sotto le lenzuola”. Tanto meno nel caso di Alessandro, cooptato nel sacro collegio da Paolo III nel 1534, appena quattordicenne. Salito sul trono di Pietro a sessantasei anni, l’avo paterno aveva bisogno di consolidare l’ascesa di una famiglia di origini provinciali, i cui antenati si erano distinti sui campi di battaglia ma che ancora non godeva del prestigio sociale e del potere politico vantati dalle dinastie baronali dei Colonna, degli Orsini, dei Caetani, dei Savelli.

Non è noto se dalle numerose “relazioni peccaminose” di Alessandro siano nati, oltre a Clelia, altri figli. Certo è che il cardinale si prende cura di lei e si preoccupa subito di trovarle un marito. La fanciulla aveva nove anni quando, nel palazzo di Torre Argentina, riceve l’anello di fidanzamento dal sedicenne Giovan Giorgio Cesarini. Tra le famiglie di antico lignaggio dell’Urbe, i Cesarini avevano puntato sulle carriere curiali e su una oculata politica matrimoniale come vie di integrazione nei ranghi del baronaggio. Già imparentati con molti nobili casati capitolini, tra cui i Capranica, i Capizucchi e i Colonna, il conferimento in perpetuo nel 1530 della carica di gonfaloniere del popolo romano ne aveva consacrato la preminenza nel patriziato urbano. Se il matrimonio era quindi  “proportionato” per i Farnese, lo era anche per i Cesarini.

Per quanto di illegittimi natali, Clelia era pur sempre figlia del “gran cardinale”, ricchissimo porporato che controllava una vastissima clientela e un numero incalcolabile di uffici civili e benefici ecclesiastici. Inoltre, la sua dote faceva gola a una famiglia sovraccarica di debiti e assillata dai creditori. E la sua dote era davvero cospicua: trentamila scudi d’oro, parte in contanti e parte in gioielli. Ma il matrimonio di Clelia non nasceva sotto i migliori auspici. Il rampollo dei Cesarini era famoso per la sua dissolutezza, e per questo Alessandro si oppone alla richiesta di Giulia Colonna – madre di Giovan Giorgio – di portare i due giovani a Roma per festeggiare il carnevale. Temeva, infatti, che la coppia potesse entrare nel mirino di un Papa austero e intransigente.

Gli Avvisi, come si chiamavano le gazzette dell’epoca, erano traboccanti di informazioni sui processi dell’Inquisizione, sui rastrellamenti di prostitute, sui provvedimenti restrittivi emanati dall’inflessibile “riformatore” Bernardino Carniglia, che – allevato alla scuola di Carlo Borromeo – si era premurato di ordinare: “In nessun monastero le monache possono tenere né cani, né gatti, né palombi maschi, né galli, acciò non incitino lussuria alla castità loro”. Lo stesso Pio V esortava instancabilmente i cardinali in concistoro a modificare le loro abitudini, astenendosi da “banchetti et crapule” e osservando l’obbligo di indossare il cilicio.

Nonostante questi richiami, nella Roma dell’epoca erano leggendarie la liberalità e la munificenza di Giovan Giorgio, al cui servizio c’era un vero e proprio esercito di “ufficiali”: auditore, computista, maestro di camera, cameriere personale, scalco, coppiere, trinciante, cuoco, dispensiere, credenziere, bottigliere, spenditore, maestro di stalla, due “guardaroba” e persino due nani. A questi si aggiungeva un numero imprecisato di cocchieri, staffieri, mulattieri, garzoni di stalla, di credenza, di cucina e del tinello, lavandaie e sguattere, damigelle e matrone agli ordini della moglie. Ma, se il lusso sfarzoso di casa Cesarini allarmava gli indebitati parenti di Giovan Giorgio, i suoi “desordini continuoi”, causati da una passione smodata per le donne e il gioco d’azzardo, erano per Clelia motivo di furenti litigi e di aspri contrasti. Di carattere per niente mite e remissivo, non perdeva occasione di denunciare apertamente il libertinaggio del consorte, come provano alcune lettere scritte al padre.

Ad angustiarla e umiliarla, poi, contribuiva il fondato sospetto che Giovin Giorgio intendesse moltiplicare altrove la propria prole. È in questo clima emotivo che esplode la ribellione violenta di Clelia di fronte a un tradimento del marito. L’8 luglio 1579 gli Avvisi escono con una notizia scabrosa, ma ne negano prudentemente l’attendibilità per non incorrere nei rigori del Governatore capitolino: “La voce uscita et publicata per Roma che la signora Clelia Farnese habbia per gelosia del signor Giovan Giorgio suo marito uccisa o bastonata la Bella Barbara è non solo aliena dalla verità, ma del tutto falsissima”. In ogni caso, l’episodio criminoso aveva suscitato un enorme scalpore, e rischiava di compromettere seriamente le aspirazioni al papato del cardinale Alessandro.

Il padre decide perciò di esiliare Clelia a Caprarola, dove trascorrerà un anno in preda a una profonda depressione. Superata la crisi, riappare sulla scena romana miracolosamente trasformata: la sua stupefacente bellezza supera rapidamente i confini cittadini,e viene immortalata da Jacopo Zucchi e Scipione Pulzone in due ritratti, di cui uno (ma ignoriamo quale) sarà appunto apprezzato da Montaigne. In entrambi, comunque, Clelia ha l’aspetto di una giovane dalla folta capigliatura castana, che contorna il volto paffuto e dalla carnagione rosea, con occhi scuri a mandorla e bocca ben profilati. Una figura dai tratti principeschi, insomma, impreziosita da abiti e gioielli di foggia sontuosa.

Non sorprende, quindi, che alle feste patrizie Clelia fosse annoverata – insieme a Costanza Boncompagni – tra le dame più in vista della nobiltà cittadina. È però proprio il successo mondano della figlia, accompagnato dalle maldicenze dei “menanti” (i redattori degli Avvisi) sulla sua presunta lascivia, a provocare l’ira di Alessandro. Clelia, per nulla intimidita, protesta la sua innocenza e la sua condotta irreprensibile, con una fermezza e un’audacia inusitate per una donna del suo tempo. In realtà, sui dissapori tra padre e figlia pesavano gli attriti tra suocero e genero, che traevano origine dall’amicizia di Giovan Giorgio con Ferdinando de’ Medici, nemico giurato dei Farnese.

Dopo la morte di Giovan Giorgio (24 aprile 1585), Clelia è angosciata dalla prospettiva di tornare a essere “cosa di Monsignor Illustrissimo Farnese”, suo “crudelissimo nimico”. Tuttavia, non si perde d’animo e si dedica con tutte le sue forze al progetto accarezzato con preveggente intuito dal marito: unire in matrimonio Giuliano con Flavia Damascena Peretti, pronipote del nuovo pontefice. I suoi sforzi verranno in qualche modo premiati. Sisto V, con un motu proprio del 13 giugno 1585, autorizza il figlio a usufruire per primo del “monte baronale”, uno strumento creditizio creato per agevolare il risanamento finanziario dell’aristocrazia indebitata.

Ben presto, tuttavia, Clelia si trova nuovamente al centro di una campagna diffamatoria che scatta quando viene accusata di “fornicare” con Ferdinando de’ Medici. Queste “cicalerie” avevano convinto il padre a trovarle un nuovo marito che, conducendola lontano da Roma, potesse metterle a tacere. La sua scelta cade sul marchese di Sassuolo, Marco Pio di Savoia. Sfidando l’autorità paterna, Clelia rifiuta di risposarsi. Il 25 giugno 1587 viene  raggiunta al palazzo della Cancelleria dal capitano Biagio Capizucchi, che le comunica l’ordine ricevuto dal duca di Parma – ormai la personalità più prestigosa dei Farnese – di allontanarla da Roma. Caricata su una carrozza scortata da una compagnia di ottanta cavalieri, viene trasferita nella Rocca Di Ronciglione. Vi resterà rinchiusa più di un mese, non facendo che “piangere, mandando stridi sino al cielo”. La sua resistenza viene piegata dal totale isolamento a cui è costretta. Il 2 agosto, “in habito pavonazzo, contesto di fiammeggianti chiribizzi”, sposa a Caprarola il marchese Marco Pio.

Nell’epistolario di Clelia cominciano ad affiorare pensieri cupi, associati alla commiserata condizione femminile. La donna combattiva e ribelle sembra cedere il passo a una donna cristianamente rassegnata. Nel novembre del 1599 il marito viene ucciso in un agguato tesogli a Modena, con ogni probabilità da sicari di Cesare d’Este. Un omicidio che non chiuderà il cerchio delle violenze che distruggeranno la famiglia di Marco Pio. La sorellastra Marianna, la “sventurata” monaca di Monza del capolavoro manzoniano, per i “plurima gravia, et enormia, et atrocissima delicta” commessi in convento verrà murata viva nel 1609 nella Pia Casa delle Convertite di Milano.

Con Sassuolo occupata dalle truppe di Cesare d’Este, Clelia è costretta a rifugiarsi a Parma presso i Farnese. Potrà tornare a Roma solo nell’ottobre 1601, dove si spegne l’11 settembre del 1613. Due giorni dopo Giacinto Gigli, nel suo Diario romano, le rendeva omaggio con queste parole: “[…] fu questa la più bella donna che si trovasse a suo tempo, et fu figliola del Cardinal Alessandro Farnese, del quale si soleva dire, che tre cose estremamente belle haveva questo Cardinale, che era quasi impossibile di poterle arrivare. Queste erano il Palazzo de’ Farnesi, la Chiesa del Giesù da lui fabricata, et la Sig.ra Clelia sua figliola”.

Clelia Farnese, la figlia ribelle del gran cardinale

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