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Il Presidente americano Donald Trump da diverso tempo ha un’idea: rimpiazzare le forze statunitense schierate lungo il nord-est siriano con un contingente composto da unità militari provenienti da alcuni Paesi arabi.

Il Wall Street Journal ha scritto per primo che il consigliere per la Sicurezza nazionale americana, il falco militarista John Bolton, ha chiamato il capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, per chiedere al Cairo di far parte del gruppo di volonterosi arabi che avrebbe fatto da ricambio agli americani.

Poi il ministro degli Esteri saudita, Abdel al Jubeir, ha detto durante una conferenza a cui partecipava anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutierres, che Riad era in contatto con Washington per la creazione di quel gruppo militare da mettere nel nord siriano (“Avevamo garantito già all’amministrazione Obama che se gli Stati Uniti avessero schierato forze in Siria, anche l’Arabia saudita e altri paesi avrebbero inviato proprie forze nell’ambito di questo contingente internazionale”, ha detto il saudita). E anche Emirati Arabi e Qatar erano d’accordo.

Qui da notare due cose: i sauditi sono piuttosto ansiosi di allinearsi agli americani e di annunciare mosse assertive, e l’obiettivo che guida il principe ereditario Mohammed bin Salman su questa traiettoria è la volontà di contrastare l’Iran; da qui: il Qatar potrebbe far parte del gruppo, nonostante Riad sia entrata in rotta con Doha proprio per i link con Teheran, ma la presenza della grande base del CentCom ad al Udeid rende il piccolo emirato indispensabile per le strategie americane in Medio Oriente.

Tuttavia, se la disputa col Qatar è una questione superabile (o forse in via di superamento), la presenza del gruppo arabo sunnita nel nord siriano potrebbe creare pesanti complessità. Soprattutto perché l’Iran la vedrebbe come un enorme sopruso, nemici esistenziali da combattere – con conseguente ricaduta sul contesto sociale e il settarismo locale.

Sull’idea, per altro, pesa un precedente: lo Yemen. Riad tre anni fa ha costruito una forza congiunta, composta più o meno da quegli stessi paesi, con cui intendeva riconquistare il paese dai ribelli Houthi. Ma la missione è rimasta ferma all’intenzione: gli Houthi sono sempre lì per l’incapacità pratica dei soldati di quella che veniva chiamata la Nato Araba, mentre aumentano le morti di civili proprio per gli errori (o forzature) della coalizione a guida saudita – e si inasprisce il confronto con l’Iran, che ha link con i ribelli yemeniti.

Bolton, secondo quanto riportato dal WSJ, starebbe facendo pressione sui partner arabi degli Stati Uniti, chiedendo più impegno nel pieno della linea trumpiana. Il quotidiano americano non troppo distante da Trump, scrive che il consigliere starebbe veicolando l’idea che i militari arabi facciano soltanto da appoggio (e i loro stati da finanziatori) perché poi il grosso delle truppe sarebbe fornito da società private.

Come sempre in questi casi spunta il nome di Erik Prince, proprietario di una società che si occupa di contractor militari (una volta si chiamava Blackwater, poi è finita in mezzo storiacce di soprusi ai tempi dell’occupazione dell’Iraq e ha cercato una ripulitura di immagine cambiando anche nome). Prince ha ottime entrature nell’amministrazione (e non solo perché sua sorella è la segretaria all’Istruzione) ed è consulente militare di Mohammed bin Zayed, super agguerrito principe-militare emiratino.

È necessario adesso fare un punto sullo spirito dietro all’idea: Trump da sempre chiede maggior coinvolgimento agli alleati; lo chiede attraverso i miliardi di scambio da tagliare sui deficit commerciali, ma lo chiede anche in un’ottica più allargata, politica internazionale diciamo, perché a suo modo di vedere le cose l’America è troppo impegnata in giro per il mondo in questioni che non solo non le portano benefici ma grattacapi, e sono anche troppo onerose. È il motto America First nella sua rappresentazione reale.

Chiede per esempio ai partner Nato di fare qualcosa di concreto per l’alleanza, come appunto chiede ai paesi arabi mediorientali di essere maggiormente attivi nelle beghe regionali. È una linea che non dispiace a molti americani: non va coperta con l’isolazionismo e il nazionalismo, perché scava in un’esigenza molto sentita negli Stati Uniti di riequilibrare la propria presenza. Per molti aspetti si muove nello stesso solco dell’amministrazione Obama, che aveva iniziato a mettere i puntini al proprio posto con gli amici internazionali.

La Siria, allora, diventa un termine di applicazione della teoria perfetta (un’avanguardia, come gli osservatori delle dinamiche che sono uscite dal conflitto possono aver notato). Trump ha più volte sottolineato che la presenza americana nel paese è soltanto finalizzata alla lotta la terrorismo statuale del Califfato; anche se da diversi angoli dell’amministrazione sono più volte uscite indicazioni che un riassetto dell’impegno, adesso che lo Stato islamico sembra per buona parte battuto, potrebbe riguardare un interessamento nei confronti dell’Iran e del suo gioco di influenze aggressive nella regione, partendo proprio dal ruolo conquistato difendendo il dittatore di Damasco.

Non più tardi di tre giorni fa, la questione dei soldati americani in Siria era stata ragione di affilate precisazioni diplomatiche tra la Casa Bianca e l’Eliseo. Stati Uniti e Francia sono stati i due paesi promotori del blitz “one shot” con cui è stata inflitto un avvertimento armato al sanguinario presidente siriano Bashar al Assad la scorsa settimana: commentando la vicenda, il presidente francese, Emmanuel Macron, aveva detto di aver convinto Trump a mantenere a tempo indeterminato le forze speciali che hanno aiuto le unità curdo-arabe a battere il Califfato nel nord-est siriano.

Washington aveva rapidamente smentito le parole di Macron (anche perché poco tempo prima Trump aveva annunciato un ritiro ormai prossimo davanti alla platea infuocata di un rally elettorale in Ohio), Parigi a sua volta era tornato indietro cercando una spiegazione di facciata: resteremo ancora per un po’ per combattere l’Is, è stata la posizione alla fine concordata.

Ma Trump sa che la presenza dei soldati americani in Siria è detestata da molti suoi elettori – e forse, nonostante i consigli del Pentagono, pure da lui – e dunque potrebbe aver fatto in modo che sui giornali ci finisse un pezzo in più.

Su tutto, il commento del Cairo. L’Egitto è un paese che nel corso della guerra civile globale siriana ha anche spalleggiato (con varie nuance) il regime di Assad, e un ex alto funzionario dell’intelligence – un mondo dove niente si muove senza consensi superiori – ha già detto su un giornale egiziano che “le forze armate egiziane non sono contractor da prendere in leasing da parte di qualche Stato estero” e “nessuno dovrebbe osare osare dirigere o dare istruzioni all’esercito egiziano”.

 

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Ecco le reazioni all’idea di Trump di dispiegare truppe arabe sunnite in Siria

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