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Il presidente americano Donald Trump firmerà oggi un memorandum da cui partire per imporre nuove tariffe sulle importazioni dalla Cina per un totale di 60 miliardi di dollari (il Washington Post nei giorni scorsi ha scritto che l’amministrazione aveva già proposto alla Casa Bianca un pacchetto da 30 miliardi, ma è stato direttamente il presidente a imporne il raddoppio).

Si tratta di una misura “contro l’aggressione economica della Cina”, dicono i portavoce della White House, necessaria a valle di un’indagine “sugli sforzi cinesi guidati dallo Stato, che distorcono i mercati, per esercitare pressione e rubare tecnologie e proprietà intellettuale degli Stati Uniti”, come spiegato alla Afp.

La decisione arriva in un clima piuttosto teso tra Cina e Stati Uniti. Da Pechino, il primo ministro Li Keqianq ha detto di voler evitare “qualsiasi genere di guerra commerciale” perché sarebbe un problema per il mondo. Il premier ha parlato a conclusione delle riunioni del Congresso cinese che hanno lanciato ufficialmente il nuovo riassetto del potere centrale voluto dal presidente Xi Jinping, e ha evitato passaggi sulle misure trade-for-tat – come in gergo tecnico vengono chiamate le mosse di rappresaglia in ambito commerciale – minacciate attraverso altri canali, per esempio la stampa statale.

Trump mantiene una linea nota: colpire i cinesi per indebolirli. Il confronto, soprattutto nell’ambito tecnologico, sta uscendo dall’ambito retorico visto finora per passare alle misure pratiche, ossia, si sta alzando di livello: per esempio, qualche giorno fa la Casa Bianca ha improvvisamente bloccato 142 milioni di dollari di acquisizione della Qualcomm, un produttore americano di chip, da parte di Broadcom, un’azienda di Singapore. Un’operazione considerata ostile dal team commerciale del presidente, citando i timori per la sicurezza nazionale su un’eventuale leadership cinese nel 5G, una nuova tecnologia wireless (la Broadcom è di Singapore, e per questo, secondo i Trumpers, più facilmente esposta allo spionaggio industriale cinese).

Val la pena costruire un rapido excursus attorno a questa e altre mosse di Trump. Anche uscendo dalla pseudo-paranoia dello sbilancio commerciale – il rapporto tra import e export tra Stati Uniti e Cina, a totale benefico dei secondi – la questione infatti è grossa, e balla intorno al prossimo futuro; dunque diventa strategica. Qualche esempio: i giganti cinesi delle web-tecnology, come Alibaba e Tencent, hanno valori paragonabili a quelli di Facebook; la Cina ha il più grosso mercato globale dei pagamenti online; ha assemblato il supercomputer più veloce sulla Terra; sta costruendo un centro di ricerca di calcolo quantistico che sarà il riferimento per tutti gli altri paesi del mondo; il suo prossimo sistema di navigazione satellitare competerà con il GPS americano entro il 2020.

Ancora: Eric Schmidt, ex presidente di Alphabet (la holding che gestisce Google), ha avvertito che la Cina supererà l’America nell’intelligenza artificiale (AI) entro il 2025 (cinque anni, andando di questo passo, è fissato il sorpasso della Cina all’economia americana). Quello dell’AI è uno dei grandi temi all’interno di questa lista (rubata dall’analisi di copertina dell’Economist): non si tratta semplicemente di gestire i software di televisori, infatti, ma di ottenere un guadagno strategico che permetterà di arrivare a dettare la linea sulla tecnologia che nei prossimi anni sarà predominante, dagli acquisti online alle armi.

Una questione enorme, dove anche lo spionaggio ha un ruolo centrale, soprattutto secondo gli americani che accusano la Cina di aver basato i propri progressi sui dati rubati col sostegno statele. Di più: il web cinese ha circa 800 milioni di utenti, più di qualsiasi altro paese, e questo permetterà a Pechino di usufruire del più ampio set di big data su cui tarare l’artificial intelligence. Altra denuncia americana: i cinesi potranno farlo anche grazie al quasi totale controllo imposto su Internet, un argomento ancora più critico nei giorni in cui il caso della sottrazione di informazioni per analisi operata dalla Cambridge Analytica durante le presidenziale riempie le pagine dei giornali e le speculazioni scientifiche e filosofiche.

Ora, però, il punto centrale, secondo l’Economist – che da più influente rivista del mondo si fa voce del pensiero profondo globale –, sta nel comportamento di Trump: quanto è efficace la strada aggressiva intrapresa dal presidente americano? Finora, spiega il settimanale inglese, il rapporto tra Stati Uniti e Cina era tutto racchiuso sul retro degli iPhone, dove si trova scritto “Designed by Apple in California. Assembled in China”, ma l’evoluzione tecnologica cinese sta viaggiando talmente forte che l’equilibrio acquisito, l’America mette la testa la Cina mette il braccio, viene via via scalzato, e per questo “l’America è scossa”.

Come rispondere a questa scossa? La forza americana, secondo l’Economist, è nata dal confronto con l’Unione Sovietica, quando aveva creato un sistema galvanizzato negli investimenti sull’istruzione, sulla ricerca e sull’ingegneria (grazie anche a programmi governativi creati per spingere il confronto, il sorpasso, su Mosca), “sovralimentato da un sistema di immigrazione che accoglieva le menti promettenti da ogni angolo del pianeta”.

Per l’Economist, “Trump non è all’altezza” di questa sfida, e la testimonianza è “la decisione su Broadcom [che] suggerisce che un valido sospetto sulla tecnologia cinese si stia trasformando in un vero e proprio protezionismo”. “L’approccio di Trump è definito solo da ciò che può fare per soffocare la Cina – è la secca sintesi del giornale – non da quello che può fare per migliorare le prospettive dell’America” e il taglio del 42,3 per cento sulle spese non destinate alla Difesa nel bilancio 2019, dunque colpendo vari programmi per ricerca e sviluppo, è un’altra cartina tornasole (one more? Aver reso più complicato l’ingresso negli Stati Uniti): “L’America ha ragione di preoccuparsi della tecnologia cinese. Ma per l’America voltare le spalle alle cose che l’hanno resa grande non è una risposta”.

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