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Si conclude una settimana potenzialmente significativa per la politica estera degli Stati Uniti. Prima il Dipartimento di Stato che comunica l’uscita di Washington dall’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Poi il presidente Donald Trump che mette ufficialmente nel mirino l’accordo del 2015 sul nucleare iraniano. Leader e commentatori europei, non sempre pacati e lucidi nell’analizzare l’attuale fase storica in America, non aspettavano altro: ecco gli ennesimi assalti del rozzo Trump all’ordine liberale internazionale, hanno subito commentato quasi in coro. Con la ministra degli Esteri dell’Unione europea, Federica Mogherini, che addirittura è intervenuta ricalcando alla lettera le dichiarazioni del presidente della Repubblica islamica, Hassan Rohani: “Non è un accordo bilaterale, non appartiene a un solo Paese e nessun Paese può bloccarlo”. Puro formalismo giuridico, applicato però a favore di uno dei regimi più spietati all’interno e all’esterno dei propri confini. E brandito per dimostrare che il “fuori legge”, il disturbatore-in-chief, è Trump con i suoi Stati Uniti. Era già accaduto con la sospensione della partecipazione americana all’accordo di Parigi sul clima: secondo tanta parte delle élite europee, ultimamente è dall’Atlantico che arrivano le bordate più pericolose all’ordine internazionale liberale. Cioè contro quell’insieme di regole scritte e non scritte che proprio Washington ha contribuito a forgiare all’indomani della Seconda Guerra mondiale.

Ma quanto è davvero “liberale” l’ordine che oggi gli europei dicono di difendere? Sulla definizione di “ordine internazionale liberale” la discussione tra studiosi dura da decenni. E non è ancora finita. Anche perché tale ordine è in continua evoluzione da decenni. Tuttavia è indubbio che questo cosiddetto “ordine”, per essere “liberale”, debba essere caratterizzato da una minima dose di “liberalismo politico”, in opposizione al suo contrario che è l’autoritarismo. E quanto liberalismo c’è, per fare un esempio, nell’odierna Unesco, agenzia delle Nazioni Unite che ha un lungo curriculum di decisioni illiberali e provocazioni antisemite? E’ legittimo chiedersi perché nessun leader europeo si sia azzardato a compiere una seria riflessione su una dépendance dell’Onu in cui i minuti di silenzio per le vittime dell’Olocausto si possono fare soltanto se sono seguiti da minuti di silenzio per le vittime palestinese di Israele, e in cui la maggioranza dei membri nega perfino il nome ebraico del Muro occidentale e del Monte del Tempio a Gerusalemme, avallando in maniera simbolica il sogno coltivato dai fondamentalisti islamici che vorrebbero rendere Judenfrei la città santa.

E quanto è “liberale” e rispettoso dei diritti umani l’accordo siglato nel 2015 con l’Iran? Parliamo di una intesa stretta con un regime autoritario e fondamentalista, che viola sistematicamente i diritti umani della sua popolazione e che esporta anche all’estero una versione brutale del credo islamico fin dai tempi della fatwa di Khomeini contro lo scrittore Salman Rushdie. Nell’intesa che sta così a cuore alla Mogherini, non c’è traccia della libertà di parola, della libertà di fede, della libertà dal bisogno e dalla paura che invece troneggiavano nella Carta Atlantica del 1941 che fu il primo tentativo di informare le relazioni internazionali a dei princìpi liberali. Non solo. Theresa May, Emmanuel Macron e Angela Merkel, a nome rispettivamente di Regno Unito, Francia e Germania, ieri sera non hanno nascosto le “preoccupazioni per il programma missilistico dell’Iran” e quelle per “le attività dell’Iran nella regione che hanno un impatto sugli interessi e sulla sicurezza” del Vecchio continente. Però hanno sostenuto che 13 anni di diplomazia non si buttano alle ortiche così e che Teheran finora ha rispettato i termini dell’intesa (giura l’Aiea). Non è questo un esercizio di estremo realismo politico che sconfina nell’appeasement, piuttosto che un esempio di liberalismo applicato alle relazioni fra Stati? Potremmo cominciare con il chiederlo a migliaia di dissidenti chiusi nelle carceri iraniane o costretti alla fuga dal paese, poi rivolgere lo stesso quesito a migliaia di israeliani e libanesi vittime di Hezbollah, prima di domandare infine ai teorici delle relazioni internazionali.

D’altronde i leader europei contemporanei sono di una stoffa tale da anteporre il problema del cambiamento climatico a quello dello Stato di diritto (perfino nei paesi limitrofi come la Turchia). Un cavillo giuridico per regolare le emissioni di CO2 di un singolo capannone industriale, evidentemente, è più facile da imporre a se stessi e ai Paesi in via di sviluppo – ma non alla Cina, ovvio – di quanto non lo sia la difesa e la promozione di diritti inviolabili come la libertà di parola, l’uguaglianza fra uomo e donna, figurarsi un minimo di laicità e di standard democratici.

Considerato infine che le scelte compiute finora da Trump sono in linea con il mainstream repubblicano in politica estera (la rottamazione del deal iraniano, per dire, era presente nel programma elettorale di tutti i candidati del GOP, mentre la fuoriuscita dall’Unesco fu già perseguita alla metà degli anni 80 da Ronald Reagan), diventa legittimo pensare che col tempo siano stati piuttosto gli europei a cambiare idea su cosa si intende per “ordine internazionale liberale”. Attenzione: qui non si esclude che un certo richiamo della foresta isolazionista possa aver giocato un ruolo nelle recenti decisioni di Washington. Tuttavia ci interessa sollevare un altro punto: e cioè il fatto che per Bruxelles, negli ultimi 30 anni, pare sia diventato meno importante l’obiettivo di creare un sistema internazionale – politico, economico e di sicurezza – che garantisca la libertà dei paesi democratici, e sia invece diventato più urgente imporre una governance tendenzialmente dirigista, progressista, multiculturale e non necessariamente liberale. Anzi. Chissà se qualche europeista sarà disposto a rifletterci su.

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