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L’evoluzione della politica estera americana in Medio Oriente rappresenta una sfida complessa, che si intreccia con i cambiamenti regionali e le dinamiche interne statunitensi. La rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti d’America apre infatti un nuovo capitolo nella politica estera di Washington riguardo alla regione mediorientale nel suo complesso, ma anche nei rapporti bilaterali tra la superpotenza statunitense e i singoli attori regionali. Come ciò avverrà è stato oggetto di dibattito all’interno dell’edizione 2024 dei MedDialogues organizzati dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Un panel specifico dal titolo “The future of the Us in the Mena”, organizzato in collaborazione con l’Atlantic Council, ha visto una serie di personalità confrontarsi proprio sul tema in questione, con l’ausilio offerto dalla moderazione di Karim Mezran, Resident Senior Fellow nella North Africa Initiative dell’Ac.

Sono stati affrontati temi scottanti, come quello dei rapporti tra Washington e Teheran. La politica di “massima pressione” sull’Iran adottata da Trump durante il primo mandato potrebbe continuare, ma con un approccio più mirato. Come ha affermato Vali Nasr, Majid Khadduri Chair presso la Johns Hopkins University, la massima pressione perseguita da Trump nel suo primo mandato “ha soffocato l’economia iraniana, ma non ha portato Teheran al tavolo delle trattative. Questo potrebbe spingere l’amministrazione a rivedere la strategia per ottenere risultati più tangibili”. Nasr ha sottolineato come l’Iran stia segnalando una volontà di dialogo, anche attraverso dichiarazioni pubbliche di consiglieri vicini alla Guida Suprema. Tuttavia, qualsiasi nuovo negoziato dovrà tener conto delle pressioni interne del Paese turanico, e della forte necessità di stabilità regionale.

Spunti di riflessione sono stati lanciati anche sulla posizione dei Paesi del Golfo, posizione che ha subito significativi cambiamenti negli ultimi anni, con una crescente tendenza all’autonomia strategica da parte degli stessi. Badar Al-Saif, professore all’Università del Kuwait, ha rimarcato come “gli attacchi del 2019 alle infrastrutture petrolifere saudite e la risposta esitante degli Stati Uniti hanno rafforzato l’autosufficienza della regione”. Inoltre, gli Stati del Golfo mantengono rapporti economici profondi con la Cina e collaborano con la Russia attraverso il patto Opec+. Nonostante la centralità degli Stati Uniti nella sicurezza regionale, Al-Saif ha sottolineato che il Golfo non vuole essere trascinato nella competizione tra grandi potenze, preferendo una posizione intermedia e distaccata.

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni Paesi arabi attraverso gli Accordi di Abramo potrebbe continuare a essere una priorità per Trump, ma con ostacoli crescenti. Secondo Marisa Khurma, direttrice del Middle East Program presso il Wilson Center, “le popolazioni arabe, specialmente i giovani, sono sempre più critiche nei confronti del sostegno americano a Israele, come evidenziato da sondaggi che mostrano che oltre il 90% delle persone in sedici Paesi valuta negativamente il ruolo degli Stati Uniti nel conflitto di Gaza”. Tuttavia, Khurma ha notato che i governi arabi, nonostante le pressioni interne, continuano a proporre la normalizzazione come strumento per promuovere una soluzione a due Stati.

E Pechino? La Cina sta rafforzando il suo ruolo economico e diplomatico in Medio Oriente, come evidenziato dalla mediazione tra Arabia Saudita e Iran e dalla crescente cooperazione economica con i Paesi del Golfo. Tuttavia, secondo Al-Saif “gli Stati del Golfo vedono la Cina come un partner commerciale, ma non come un sostituto degli Stati Uniti nella sicurezza regionale”. Gli Stati Uniti rimangono il principale garante della sicurezza nel Golfo, ma il loro approccio futuro dovrà confrontarsi con la crescente influenza cinese e con il desiderio regionale di mantenere una politica estera equilibrata.

Un fattore che emerge dalla discussione è che l’immagine degli Stati Uniti nella regione si è deteriorata, con molti che li considerano una fonte di instabilità. Come ha sottolineato Khurma, “esiste una nuova generazione nel mondo arabo che percepisce il conflitto israelo-palestinese attraverso il prisma della guerra di Gaza, rafforzando sentimenti antiamericani”. Allo stesso tempo, le richieste di maggiore stabilità regionale, il bisogno di ricostruzione economica e sociale e la cooperazione in settori come l’educazione e lo sviluppo giovanile potrebbero offrire agli Stati Uniti un’opportunità per ricostruire la fiducia.

Il ritorno di Trump si collocherebbe in un Medio Oriente trasformato, dove le dinamiche regionali richiedono un approccio più sofisticato e bilanciato. Come evidenziato dagli esperti, le sfide per una futura amministrazione includono la gestione della competizione con la Cina, il riequilibrio dei rapporti con gli Stati del Golfo e la necessità di affrontare le crescenti tensioni sociali legate al conflitto israelo-palestinese.

Trump e il Medio Oriente. Stabilità o ulteriore polarizzazione?

La rielezione di Trump apre nuove prospettive per la politica americana in Medio Oriente, in bilico tra un approccio più bilanciato e le sfide poste da attori regionali e globali. Il dibattito ai MedDialogues dal titolo “The future of the Us in the Mena”

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