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Parafrasando Mao Zedong, il Patto di stabilità non sarà un pranzo di gala. Certo, l’Italia ha portato a casa un compromesso non scontato, che concede allo Stivale della flessibilità sul deficit e una traiettoria sul debito decisamente più morbida. I Paesi con un debito eccessivo, tanto per ricapitolare, saranno tenuti a ridurlo in media dell’1% all’anno se il loro debito è superiore al 90% del Pil, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%. Se il disavanzo di un Paese è poi superiore al 3% del Pil, dovrebbe essere ridotto durante i periodi di crescita per raggiungere l’1,5% e creare una riserva di spesa per periodo con condizioni economiche difficili.

E l’Italia, si trova su un sentiero stretto. Da una parte ci sono da smaltire le scorie del Superbonus, ovvero la montagna di crediti di imposta maturati da imprese e famiglie per le ristrutturazioni e che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, sta faticosamente gestendo, dall’altra c’è da finanziare la manovra 2025 e con essa il rinnovo del taglio al cuneo fiscale. In mezzo, una crescita che, per fortuna, si manterrà abbastanza tonica anche anche il prossimo anno, intorno all’1,2%.

Ma bisogna prestare attenzione, partendo da alcune premesse, come quelle evidenziate sia dalla Corte dei conti, sia dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), ambedue ascoltati alla Camera. Partendo dalla prima, “come emerge dalle stime del Def, per l’Italia la concreta attuazione della riforma (il Patto, ndr) richiederà sforzi significativi, specie dopo la fase 2025-2027, connotata da elementi di transitorietà. L’auspicio è che a livello europeo cresca, nei prossimi anni, la consapevolezza che la governance economica dell’Ue dovrà anche contribuire a rispondere alle difficili sfide connesse alle crisi in atto, climatica, energetica, geopolitica e alle relative implicazioni in termini di maggiori investimenti per la produzione di beni pubblici europei”.

Il messaggio è chiaro, la transizione avrà un costo e gli Stati dovranno metterci del loro. E tenere fede alle nuove regole fiscali europee avrà il suo prezzo. Regole però di cui non si può certo fare a meno, anzi. “La valutazione della Corte sulla riforma della governance economica dell’Ue è complessivamente positiva” anche se le modifiche all’impianto originario “non appaiono sempre coerenti” ed alcune clausole ne “irrigidiscono l’architettura”. Come a dire, la maggior flessibilità poc’anzi menzionata, verrà compensata in qualche modo con clausole come la riduzione minima del rapporto tra debito e Pil.

Anche per l’Upb il ritorno dei vincoli europei impatterà sull’Italia. Ma qui il campo si è ristretto più sulle regioni e i comuni. “Risulta complicata l’applicazione delle nuove regole europee al complesso degli Enti territoriali”. Perché? Secondo l’Upb, “è necessario, da un lato, assicurare il coordinamento tra le nuove regole e quelle contabili sul pareggio di bilancio e, dall’altro, garantire che i vincoli sulla dinamica della spesa siano compatibili con il fabbisogno finanziario per lo svolgimento delle funzioni fondamentali e per l’erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep)”. Tradotto, gli enti locali hanno poca cassa e il ritorno dei vincoli potrebbero chiudere ancora di più i rubinetti.

Il Patto di stabilità e le sue ombre. Il monito di Corte dei conti e Upb

Mentre il governo avanza sulla riforma fiscale e tenta di smaltire le scorie del Superbonus, magistratura contabile e Ufficio parlamentare di bilancio avvisano Palazzo Chigi. Seppur frutto di un compromesso, le nuove regole richiederanno attenzione e qualche sforzo. E occhio alle regioni

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