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Aprile 2017. Rientrando in Italia dal Cairo Papa Francesco disse ai giornalisti che lo accompagnavano in aereo: “Dovete leggere bene quello che ho detto. Ho detto che Italia e Grecia sono stati i Paesi più generosi. Ho sempre ammirato anche la Germania per la sua capacità di integrazione. Quando studiavo a Francoforte ho visto tanti turchi integrati, tanti che svolgevano una vita normale. Esistono però i campi dei rifugiati che sono dei veri campi di concentramento”.

Il reportage di Amedeo Ricucci che Rai Uno trasmetterà domenica 3 settembre in seconda serata nel programma TV7 si intitola “L’imbroglio” e ci mette davanti alle immagini che giungono da campi di concentramento, culmine di un viaggio dantesco in un inferno chiamato Libia, ma che io chiamerei “vite di scarto”. Vite gettate sulle coste per giorni, settimane, mesi, prima di cercare la traversata, e per le quali, quando Ricucci le intercetta, si spara, ma per nasconderle. Vite gettate per terra in hangar gestiti come fossero porcilaie, e delle quali nessuno degli incaricati sa dire quante siano, come mangino, come dormano, come si nutrano.

“L’imbroglio” cerca non solo di farci vedere la diga che deve deviare il corso di questo fiume di profughi, di fuggiaschi da ogni tragedia (miseria, guerra, persecuzione, abbandono) pensando che alla fine del deserto, e alla fine del mare, esista la Terra Promessa, ma anche la curiosa natura dei protagonisti di questo tardivo tentativo, gestito senza testimoni né strutture né diritti. Si ha l’impressione di trovarsi in un film dove i ladri diventano guardie e le guardie diventano ladri.

I nomi dei protagonisti di questo valzer che frutta milioni di euro sono tanti, ma due spiccano sugli altri. Quello del presunto boss della tratta di migranti nella città libica di Zawiya, Abdurahman Al Milad Aka Bija, o semplicemente Al Bija, 28 anni, della potente tribù degli Abu Hamira, che è anche il nuovo comandante della Guardia costiera della città situata a circa 45 chilometri a Ovest di Tripoli, diventata da tempo “il quartier generale” del traffico di esseri umani e del contrabbando di petrolio lungo la costa occidentale della Libia. E quello dei suoi nemici, “le milizie”, una nota come al-Ammu e l’altra come Brigata 48, guidate da due fratelli della grande famiglia al-Dabashi”. Secondo l’Associated Press, “almeno cinque funzionari della sicurezza e attivisti di Sabrata hanno detto che i miliziani sono noti per essere trafficanti di migranti”. Ricucci in queste ore sta montando la testimonianza di un libico, il cui volto verrà oscurato, che dice: “C’è stato un accordo fra gli italiani, non so se dei servizi segreti, e il comandante della Guardia Costiera di Zawiya, Bija. Il quale ha preso l’impegno di parlare con i trafficanti per bloccare le partenze. C’è stato quindi un incontro a Sabrata, con tutti i capi delle milizie implicate nel traffico di migranti e di petrolio, che hanno accettato l’accordo”. A domanda: “Ma è vero che ai trafficanti sono andati 5 milioni di euro?” la risposta è stata “Si, hanno ricevuto questi soldi”.

Sarà vero? Di certo l’ipotesi, alla quale si accenna da giorni, non dovrebbe sorprendere, ogni “autorità” si regolerà come può: Ma poi? Domani? I trafficanti resteranno tali: e la guardia costiera? La telecamera di Ricucci arriva ovunque, anche nello studio dell’inquietante al Bija: Come mai? Perché lui è bravo, certamente, ma l’impressione è che ciò accada anche perché in Libia tutto é possibile, come ovunque non esista uno stato. Nello sguardo di al Bija, quando viene intervistato, si ha l’impressione di scorgere il conflitto insolubile tra mondo tribale e mondo statuale: i miei referenti sono altrove, io rispondo ad altri criteri. Viene naturale pensare che questa sia la vera ragione per cui il modello di accordo firmato dall’Europa con la Turchia, feroce quanto si vuole ma modello, non sia esportabile in Libia: perché la Turchia è uno stato, repressivo, con un rispetto a dir poco approssimativo per norme e diritti, ma uno stato: la Libia no.

Nel disastro che percorriamo in auto con Ricucci si vedono i colori dell’illegalità diffusa, e quindi delle mafie, del crimine organizzato; non si vedono altri colori.

Così le immagini ci inducono a ondeggiare costantemente tra la riflessione sul passato e l’interrogativo sul futuro. I soldi che oggi si investono e si progetta di investire con chi c’é in Libia, non sarebbero stati meglio spesi dall’Onu subito dopo la caduta di Gheddafi per avviare una ricostruzione accompagnata, guidata, assistita, delle istituzioni libiche? E visto che questo ieri non è stato fatto, questi interlocutori che si presentano come “guardia costiera”, “municipalità”, magari sindaci, per quanto tempo rispetteranno i patti prima di esigere altro? C’è un calcolo di cui si vocifera con insistenza in questi giorni: gli aiuti arrivati in Libia coprono, attraverso questi esosi canali, il blocco di 20mila migranti. E gli altri 280mila?

Intanto i volti, i racconti, i corpi dei profughi ammassati nelle porcilaie libiche cercano di prendere la nostra attenzione: parlano a Ricucci dei villaggi da cui sono partiti, dei sacrifici di tutta la famiglia per regalargli quest’opportunità di partire verso la vita, della scoperta che la nuova vita è un incubo e quindi della loro disponibilità a tornare indietro; ma anche della necessità di ulteriori pagamenti. Non sorprendono le testimoniane sulle telefonate dei trafficanti, per chiedere a casa altri soldi, urgentemente, pena torture, sevizie. E’ un momento, e ricordo il racconto di un salafita, ospite a Roma della Comunità di Sant’Egidio, che anni fa raccontava del suo impegno per riscattare i profughi sudanesi catturati dai briganti nel Sinai. Li costringevano a chiamare i loro familiari mentre li torturavano, in modo che dall’altro capo del telefono capissero bene quanto fosse urgente per il loro congiunto ricevere altri soldi, e tanti. I morti in mare saranno moltissimi, e questo ci inquieta, ma mentre le telecamere corrono sul lungomare libico non ci si può non chiedere se quella costa non sia ormai un lunghissimo cimitero. Lo lascia intendere un poveraccio, che si ostina a voler dare, per suo conto, onesta sepoltura a chi trova sulla costa, o poco all’interno. Ammettendo di non farcela più. “Abbiamo cominciato a scavare fosse comuni, impossibile ormai fare diversamente”.

“L’imbroglio” va in onda domani sera su Rai Uno, senza la pretesa di dirci come si uscirà da tutto questo, ma con l’effetto di indurci a riflettere. Con realismo e però anche con la consapevolezza che quelli inquadrati sono uomini veri.

Il viaggio nell'inferno dantesco della Libia. Il reportage di Amedeo Ricucci

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