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Secondo The Economist, “le riforme spagnole” dovrebbero “indicare la via” per la ripresa economica agli altri stati dell’Europa meridionale, intendendo, con questo, l’Italia e la Grecia.

In fondo, come dare torto al prestigioso settimanale britannico?

Nel 2012, la Spagna, dilaniata dalla crisi economica e dal tracollo del mercato edile, si trovava ad un passo dal deficit. Quell’anno, la salvezza arrivò tramite il piano di salvataggio di Bruxelles (65 miliardi) gentilmente accordato grazie all’impegno del governo, guidato allora come oggi dal’esponente del Partito Popolare, Mariano Rajoy, di operare un vasto programma di riforme.

Rajoy ottempera alle promesse e la Spagna, cinque anni dopo, cresce più di tutti gli altri principali membri della UE, segnando quota 3% per il terzo anno consecutivo. Grazie alla ripresa, il PIL spagnolo è tornato quest’anno sui livelli precedenti all crisi finanziaria, un dato raggiunto dalla Francia nel 2011, dall’Eurozona nel suo complesso nel 2015, ma ancora lontano per l’Italia e la Grecia.

Viva Rajoy, insomma, dicono dall’Economist. Viva Rajoy dicono anche molti analisti e politici europeifra cui si è aggiunto di recente il Premier in pectore del Movimento 5 Stelle, il vice-Presidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio.

Come espresso da Di Maio durante il Forum Ambrosetti di Cernobbio, un incontro che richiama la presenza di imprenditori, politici, premi nobel ed economisti, il “governo di Mariano Rajoy” sarebbe il modello che il candidato premier intende seguire nei confronti con l’Unione Europea per mettere in atto “necessarie” riforme del lavoro in Italia. Nella dialettica del vice-Presidente della Camera, ciò significherebbe che l’esempio da seguire “per far cedere l’Europa [e la Germania] sul principio dell’austerità”, garantendo all’Italia di sforare il tetto del 3% del rapporto Deficit/PIL ed operare le riforme, esattamente come avvenne nel 2012 in Spagna.

Tutto perfetto, quindi, se non fosse che le riforme del Governo Rajoy del 2012 non rappresentano un modello di rivolta all’Europa, a Bruxelles ed all’Austerity tedesca, ma sarebbero esattamente quello che l’Europa suggerisce da anni all’Italia.


 

Cosa comporterebbero delle riforme “alla Rajoy” in Italia?

Per correttezza d’informazione, ad oggi non sappiamo quali siano le proposte “concrete” del M5S per il futuro dell’Italia, né sappiamo se un ipotetico governo pentastellato sia interessato ad applicare queste riforme. Eppure, sempre per correttezza nell’informare, è necessario capire cosa si intenda per “modello spagnolo”.

Riassumendo, il pacchetto di riforme di Mariano Rajoy si basa su tre punti base: flessibilità contrattuale, flessibilità lavorativa ed abbassamento dei costi sociali del lavoro. Nello specifico:

  • Flessibilità Contrattuale. Il primo passo, è stato introdurre una nuova forma contrattuale per le imprese con meno di 50 dipendenti, equivalenti alle PMI italiane. Queste possono ora assumere lavoratori mediante contratti a tempo indefinito con periodi di prova che possono arrivare ad un anno, dopo cui non verrebbe rilasciato il trattamento di fine rapporto. Sono stati allungati anche i tempi dell’apprendistato, diventati flessibili e con limite massimo d’età portato da 25 a 30 anni. Agevolazioni fiscali sono state introdotte dal governo per appoggiare le assunzioni con i nuovi contratti.
  • Flessibilità Lavorativa. Sono state annullate le trattative sindacali su base nazionale a favore di concertazioni “per singola azienda”. A queste viene inoltre permesso di operare cambiamenti unilaterali nei medesimi contratti (mobilità geografica, cambiamenti degli orari e delle condizioni di lavoro) al patto che queste rispettino i limiti previsti dal contratto collettivo. Ciliegina sulla torta, il taglio degli stipendi “temporario” e “funzionale”, se supportato da motivi tecnici, economici o produttivi, auto-certificati.
  • Riduzione dei Costi Sociali. Come se non bastassero gli sgravi fiscali previsti per i nuovi contratti ed il taglio, per quest’ultimi, del trattamento di fine rapporto, le riforme ne hanno ridotto anche l’importo, dimezzandolo.

Il risultato economico è stato travolgente, ma ad un elevato costo sociale. La disoccupazione è sì passata dal 27,2% del 2013 al 18,7% del primo quarto del 2017, ma a favore dei contratti “atipici” risultante in una forte precarizzazione del mercato. Il pubblico impiego, scuola e sanità compresi, risulta essere uno dei settori più colpiti. In aumento, infine, le “espulsioni” dal mondo del lavoro, ovvero il fenomeno dell’emigrazione, soprattutto dei giovani sotto i 24 anni.


Concertazione a livello locale, de-potenziamento delle unioni sindacali, precarizzazione e limitazione dei meccanismi di ammortizzazione sociale sono parole d’ordine che sanno di già sentito, ma dove?

La risposta è semplice: nel pacchetto di riforme meglio noto come Agenda 2010 licenziate in Germania da Gehrard Schröder nel 2003. Riguardando, infatti, quelle riforme, il modello non sarebbe neanche sbagliato. Si tratterebbe di quella “flexicurity” tipica dei paesi scandinavi e bandiera della sinistra italiana (ed europea) per tutto il decennio pre-crisi.

Rispetto al modello danese, a quello tedesco, più debole, e anche a quello presentato dal suo più recente emulo, il Presidente francese Emmanuel Macron, le “riforme Rajoy” mancano dei necessari ammortizzatori sociali: la riqualificazione del lavoratore in base alle esigenze del mercato pagata dallo stato e finanziata dal gettito fiscale.  L’intento spagnolo e francese sarebbe, infatti, quello di tagliarla la spesa pubblica, in particolare quella dedicata agli ammortizzatori sociali, e non di aumentarla ulteriormente come l’applicazione del sistema danese richiederebbe.

La sicurezza, nelle riforme spagnole, da “garantita” come nel nord Europea, diventa strutturale e demandata dallo stato alla stessa economia. Più soldi uguale più lavoro, più lavoro porta alla riduzione dei tempi della disoccupazione mentre la “flessibilità” andrebbe a garantire la “sicurezza” di trovare un nuovo lavoro.


L’esempio del successo di questa scommessa?

Sempre la Germania, dove però, e va ricordato fino allo svenimento, sussiste un sistema di ammortizzatori sociali quasi totalmente sconosciuto ai paesi dell’Europa meridionale. Lo stesso paese preso spesso di mira dagli esponenti del Movimento 5 Stelle, e dallo stesso Di Maio, come “simbolo dei mali” dell’Europa “dei banchieri”.

Queste, in breve, sono le caratteristiche e le origini del “modello Rajoy”, quello che lo stesso Di Maio, ovvero il maggior esponente politico di un movimento contrario “alla supremazia tedesca in Europa”, ha definito come “l’esempio da seguire per cambiare l’Italia”.

Il tutto cercando in un popolare spagnolo una sponda verso il modello tedesco ed europeo, consapevoli, forse, che le riforme da fare sarebbero quelle, in barba a qualsiasi propaganda.

E se The Economist avesse finalmente trovato il proprio campione italiano?

 

Tratto da: il Caffè e l’Opinione

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