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Lo Stato islamico torna a fare notizia con un nuovo fatto di sangue consumatosi a migliaia di chilometri dalle sue ormai ex roccaforti siro-irachene. Ieri la filiale aghano-pakistana del gruppo jihadista, conosciuta come Isis-K (Khorasan), ha messo a segno un attentato all’ambasciata irachena a Kabul, costato la vita a due guardie afghane. L’attacco è stato realizzato da quattro uomini, il primo dei quali si è fatto esplodere all’ingresso del complesso diplomatico, permettendo agli altri tre di entrare armi in pugno nell’edificio e di tenerlo sotto assedio per oltre quattro ore. L’intervento delle forze speciali afghane, che hanno ucciso i tre jihadisti, ha quindi posto fine all’assalto, che conferma la vitalità della formazione jihadista anche al di fuori del califfato in rovina.

Secondo stime americane, Isis-K può contare in Afghanistan su un numero di effettivi compreso tra mille e duemila unità, che sono dispiegati tanto a sud quanto a nord come a est del paese. La sua diffusione aggrava una situazione già difficile, con i talebani che hanno rialzato la testa negli ultimi mesi e controllano oggi poco più del 10% dei distretti dell’Afghanistan, contro il 60% in mano al governo e un altro 30% di aree contese. In questo quadro deteriorato, lo Stato islamico sguazza, e riesce a dimostrare di essere ancora una minaccia nonostante le cocenti sconfitte subite in Iraq e l’imminente caduta della sua capitale siriana di Raqqa, oggi assediata dalle forze curdo-arabe dell’SDF alleate agli Stati Uniti.

L’attentato di ieri giunge in un momento topico, con l’amministrazione Trump al lavoro nel definire una nuova strategia per una guerra, quella in Afghanistan, che con i suoi sedici anni è diventata la più lunga nella storia degli Stati Uniti. Il piano, che il segretario alla difesa Jim Mattis aveva dichiarato di voler annunciare a metà luglio, non è stato ancora diffuso, a causa soprattutto di contrasti interni al governo. La settimana scorsa una riunione al vertice aveva fatto registrare tensioni, generate dalla possibilità, ventilata da ambienti vicini al presidente, che gli Usa affidino le sorti del conflitto non più ai militari regolari ma a dei contractors. Una voce che preoccupa non poco i vertici delle forze armate, che premono da tempo per una mini “surge” di almeno quattromila uomini da aggiungersi agli 8.500 che sono già presenti sul terreno. Ma l’esercito deve misurarsi con la riluttanza di Trump che, aizzato dal suo consigliere senior e stratega Steve Bannon, pare orientato verso il disimpegno, da bilanciarsi tutt’al più con azioni di controterrorismo finalizzate ad evitare lo scenario paventato da molti: un Afghanistan che, come ai tempi di Osama bin Laden, diventa rifugio sicuro per i terroristi.

Che l’Afghanistan possa essere abbandonato al suo destino è una possibilità che le autorità di Kabul, a partire dal presidente Ghani, temono fortemente. Il governo non ha lesinato sforzi per mettere in campo nuove forze che, addestrate dalla missione Nato “Resolute Support”, hanno il compito di arginare la ribellione talebana e di far abortire sul nascere il tentativo di infiltrazione dello Stato islamico. È un’impresa difficile, però, che lascia campo libero alla tentazione americana di defilarsi da un teatro che ostico è dir poco. Ma la prospettiva di un ritiro americano non trova affatto concordi i politici americani, a partire dal combattivo senatore John McCain che – a dispetto del tumore al cervello che lo affligge – ha annunciato di essere pronto, ove non ci pensasse il presidente Trump, di presentare all’amministrazione Trump una propria strategia in Asia centrale per evitare il peggio.

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