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Con il ritorno di Donald Trump alla presidenza, l’Egitto potrebbe trovarsi in una posizione di vantaggio rispetto ad altri Paesi africani. Se durante il primo mandato Trump ha spesso trascurato il continente, la sua ammirazione per il modello di leadership del presidente Abdel Fattah al Sisi offre prospettive interessanti per Cairo, soprattutto su temi di sicurezza e commercio, senza la pressione sui diritti umani esercitata dalle amministrazioni democratiche come quella di Joe Biden.

L’alchimia personale tra Trump e Sisi si è dimostrata fin dai tempi della loro prima interazione nel 2019, quando, al vertice del G-7 in Francia, Trump definì scherzosamente Sisi il suo “dittatore preferito”. Questa sintonia ha permesso all’Egitto di ricevere ingenti forniture militari dagli Stati Uniti, consolidando una partnership che non ha subito contraccolpi significativi. Durante il mandato di Biden, le critiche riguardanti la repressione politica in Egitto avevano portato al congelamento di alcuni aiuti, accompagnate da una crescente pressione per miglioramenti concreti sui diritti umani. Tuttavia anche sotto la presidenza del democratico, l’Egitto, il più grande Paese arabo, è rimasto un attore altamente considerato dagli Usa. Con Trump, l’Egitto si aspetta di non ricevere rimproveri di carattere ideologico/idealista, lasciando a Sisi la libertà di gestire la politica interna senza interferenze.

Con un’attenzione rivolta agli Accordi di Abramo e a una stabilità regionale che vede Israele come protagonista, l’Egitto potrebbe ottenere da Trump anche un margine d’azione per espandere la propria influenza nel Corno d’Africa, se saprà navigare tra ambizioni e necessità. Il Cairo ha da tempo interessi strategici in questa regione, sostenendo militarmente le posizioni di Somalia ed Eritrea contro l’Etiopia, e fornendo supporto all’esercito sudanese nella lotta contro le Forze di Supporto Rapido (che recentemente sono state sottoposte a nuove sanzioni americane).

Sul fronte del conflitto tra Israele e i suoi avversari regionali, i funzionari egiziani continuano a lavorare nella speranza che lo stile di leadership di Trump possa portare a una fine decisa delle guerre in Gaza e Libano. Per Washington, Il Cairo è fondamentale, perché dopo l’uscita polemica di Doha dai negoziati per la liberazione degli ostaggi, resta l’unico paese musulmano al tavolo con Hamas.

Contemporaneamente, una sistemazione equilibrata della crisi di Gaza è una priorità per l’Egitto. Gli scontri, oltre a destabilizzare la regione, hanno avuto ripercussioni dirette sull’economia egiziana: gli attacchi Houthi contro le rotte marittime del Mar Rosso hanno infatti scoraggiato il transito attraverso il Canale di Suez, causando danni economici significativi al paese. Il governo di Sisi vede quindi in Trump una possibile leva per stabilizzare la regione, mantenendo la propria posizione di mediatore chiave, con il sostegno discreto ma cruciale di Washington.

Per Sisi, la prospettiva di un’amicizia rinnovata con Trump rappresenta un’opportunità unica per rafforzare la propria leadership interna senza vincoli legati ai diritti umani. Gli Stati Uniti continuano a fornire all’Egitto aiuti militari consistenti, una tradizione che, con Trump, sembra destinata a proseguire senza troppe condizioni. Se Biden aveva insistito sulla necessità di riforme interne, congelando parte degli aiuti e mantenendo un “dialogo rigoroso” su temi come la detenzione di prigionieri politici, con Trump l’Egitto potrà attendersi una politica estera pragmatica, focalizzata su sicurezza e stabilità regionale.

In questo contesto, Il Cairo si posiziona come un attore fondamentale per la politica statunitense in Medio Oriente e Nord Africa, pronto a consolidare un’alleanza strategica con Washington senza il peso delle “lezioni” sui diritti umani, ma con la prospettiva di un rinnovato sostegno militare e politico.

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Il Cairo si posiziona come un attore fondamentale per la politica statunitense in Medio Oriente e (Nord) Africa. Sisi troverà in Trump un partner pragmatico e non ideologico/idealista

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