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Mentre gli occhi sono puntati sui risultati del voto in Germania, e il pathos catalano ci tiene tutti sulle spine, c’è un’altra votazione che promette di provocare clamore e reazioni di vasta portata: il referendum secessionista del Kurdistan iracheno.

Oggi i curdi d’Iraq sono chiamati a esprimersi su un progetto covato da lungo tempo, la nascita di una patria curda. Si annuncia un voto plebiscitario, che schiude però le porte ad un vasto insieme di problemi e, non lo si può escludere, ad una guerra.

La volontà del Governo regionale del Kurdistan (Krg) di portare i cittadini al voto si scontra infatti con l’opposizione di tutti gli attori regionali e internazionali. Del governo iracheno, anzitutto, che ha cercato di bloccare il referendum con un ukase della Corte costituzionale e con le intimidazioni, esercitate tramite le milizie sciite armate dall’Iran che agiscono ormai come un potere indipendente. Baghdad ha di fronte a sé lo spettro della disgregazione dello Stato, che non finirebbe con il divorzio curdo. Il governo deve fare i conti con i malumori e l’ostilità della popolazione sunnita, che tre anni fa li ha portati ad abbracciare la causa estremista dello Stato islamico pur di sfregiare la volontà accentratrice del governo sciita di Baghdad.

Ma il referendum curdo agita anche i sonni dei regimi di Turchia, Siria ed Iran. Paesi dove vive una consistente minoranza curda, che potrebbe guardare all’esito del voto del Kurdistan iracheno con speranza, se non con l’entusiasmo per la visione utopica della nascita di una nuova entità curda che riunifichi queste minoranze superando i confini delineati con l’accordo Sykes-Picot del 1916. Un progetto che si scontra con la determinazione di Ankara, Damasco e Teheran, tutt’altro che intenzionate a piegarsi dinanzi al richiamo della storia che risuona in queste ore dalle parti di Erbil.

Tuttavia, niente appare più improbabile della fusione di individualità, clan e clientele che compongono storicamente il popolo curdo. Nello stesso territorio iracheno, i curdi sono spaccati in affiliazioni, sigle e identità differenti. I due maggiori partiti curdi – il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) – sono divisi su tutto, e ai loro margini si agitano sigle e movimenti che complicano ulteriormente un quadro frastagliato. L’unico collante nel Kurdistan iracheno, in questo momento, è rappresentato dalla volontà di punire una volta per tutta l’odiata Baghdad, la città da cui partì l’ordine di gasare col sarin i curdi di Halabja nel 1988, e che a tutt’oggi si ostina a non rispettare gli accordi costituzionali presi nel 2005 che stabiliscono la ripartizione delle ingenti risorse petrolifere. Recidere i legami è la parola d’ordine che risuona in queste ore nei tre governatorati del Krg, ma anche nei territori che i peshmerga hanno portato sotto il proprio controllo nel 2014, quando l’onda nera dell’Isis si affacciò in Iraq e fu respinta solo grazie al valore dei combattenti curdi. La sovranità su Kirkuk, città multietnica e multireligiosa nonché fondamentale centro petrolifero, è uno dei potenziali casus belli tra Erbil e Baghdad, che su questo punto potrebbero decidere di sfidarsi a colpi di opposte milizie.

Una guerra civile in Iraq è naturalmente l’ultima delle cose di cui ha bisogno un paese piagato da quasi quindici anni di conflittualità interna e da una recente stagione sanguinosa segnata dalla nascita del califfato nero. È per questo che gli americani, storici alleati dei curdi, hanno cercato fino all’ultimo di convincere il Krg a rinunciare o rinviare alle calende greche il referendum. Ma è ragionevole pensare che Washington non si opporrà all’esito delle urne. L’America ha bisogno dei boots on the ground curdi per terminare l’offensiva anti-Isis, anche nell’ottica del post-conflitto. Sul Medio Oriente grava infatti pesante l’ombra iraniana, che rischia di diventare egemone e aprire le porte ad un bellum omnium contra omnes tra potenze sunnite e sciite, con Israele nel mezzo che non potrà che schierarsi con le prime. È anche per questo che Gerusalemme è stata l’unica capitale a dichiarare apertamente il proprio sostegno alle votazioni curde. Un Kurdistan indipendente è la perfetta spina nel fianco degli ayatollah, che continuano a sognare la distruzione del progetto sionista.

Domani sapremo se in Medio Oriente sta per nascere un nuovo Stato. Quello che accadrà dopo è scritto nella sabbia.

Perché il referendum in Kurdistan agita i sonni dei regimi di Turchia, Siria e Iran

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