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L’ aiuto è entrato nel mainstream. Dopo virus, guerra, recessione, è il termine più ricorrente di anni segnati da pandemia, conflitti, crisi di vario tipo su scala globale.

Uscito dalla tradizionale sfera privata dei rapporti inter-personali, ha avuto una trasposizione nella sfera pubblica; evocato nei contesti più disparati, governativi e non, nazionali ed internazionali.

Dal Covid-19 ai conflitti in Ucraina e a Gaza, l’aiuto ha subito una profonda trasformazione, ad oggi ancora in corso.

Ha aumentato la sua valenza politica, ha perso il carattere neutralista che gli aveva garantito un’aura di sacralità a-critica ed è diventato apertamente interventista; strumento di azione e canale di relazione finalizzato al raggiungimento di interessi, sia politico-istituzionali che economico-commerciali.

Ora che si è placato il clamore suscitato dal pandoro-gate, è interessante rileggerlo mettendolo in relazione con questo quadro di cambiamenti epocali.

È una prospettiva curiosamente assente nell’acceso dibattito apertosi sulle accuse rivolte a Chiara Ferragni – che in realtà evidenzia alcune importanti (e soprattutto radicate) zone d’ombra della comunicazione del settore degli aiuti.

Sono ambiguità che esistono da molto prima della comparsa degli influencer. Poco toccati dagli scandali di quest’ultimi, sembrano destinati a resistere nel futuro.

Il pandoro-gate ha seguito una classica parabola nostrana ogni volta che ad essere sotto accusa sono state iniziative solidali promosse da personaggi noti al grande pubblico.

Lo scontro tra haters (in netto aumento) e supporters (in netto calo) della Ferragni ha ricordato i casi recenti di Mimmo Lucano, di Luca Casarini e del deputato Aboubakar Soumahoro (per i fatti della moglie). Colpevolisti ed innocentisti a fronteggiarsi prima ancora che vi sia una verità giudiziaria – che poi poco interessa ed è irrilevante per allestire una contrapposizione politica.

L’attenzione si è catalizzata sulle celebrità coinvolte e sulle loro linee difensive incentrate su auto-dichiarazioni di avere agito in buona fede.

Con una narrazione mediatica impostata a mò di cronaca romanzata sui protagonisti si è persa l’ennesima occasione per approfondire (prima) e affrontare (poi) criticità del settore degli aiuti, in particolare di quelli che ricorrono alle campagne di raccolta fondi per finanziarsi.

Le principali riguardano modalità di comunicazione poco trasparente nella fase della promozione degli aiuti.

Si parla:
dei valori cui si richiama l’aiuto, più che degli inevitabili interessi (anche legittimi) collegati;
dei bisogni del destinatario, più che della motivazione del donatore a mobilitarsi;
del futuro dell’aiuto (gli obiettivi che si prefigge), più che del suo passato (i risultati realmente raggiunti).

Ne conseguono ambiguità sulle caratteristiche degli aiuti simili a quelle imputate al pandoro-gate.

Tra le più frequenti queste di seguito.

L’aiuto (no) profit – poco viene svelato delle strutture che gestiscono l’aiuto, dei loro costi e della gestione dei bilanci per farvi fronte. Ad esempio, ne è prova il fatto che, sul versante delle Organizzazioni internazionali, è estremamente difficile rendere pubblica la retribuzione (non solo il salario ma anche i famigerati “rimborsi spese”) di funzionari ed operatori. Mentre, sul versante non-governativo, si continua ad alimentare il falso mito di un settore del no-profit e del volontariato che agirebbe a titolo gratuito, quando non addirittura in rimessa.

Spese di struttura vs attività – le campagne di raccolta fondi quasi mai specificano nel dettaglio quanto delle risorse ricevute verrà utilizzato per la realizzazione delle concrete attività solidali\umanitarie promosse e quanto invece andrà a coprire spese fisse delle strutture che gestiscono l’aiuto. Cosicché chi decide di aderire ad una campagna di finanziamento lanciata da un mediatore che dichiara di operare a vantaggio di un beneficiario terzo, si trova di fatto privato dei diritti minimi di trasparenza garantiti ad un acquirente di servizi.

La vittima ideale – portata agli estremi, la determinazione di alcune campagne di solidarietà fa sì che si avvallino rappresentazioni forzate dei fatti per target degli aiuti scelti non in base all’entità dei loro bisogni ma alla loro presa sull’opinione pubblica. Come la scelta di mettere sempre al centro della comunicazione i bambini, benché sia risaputo che la categoria più vulnerabile nelle crisi umanitarie siano gli anziani.

Manipolazione emotiva – ugualmente spesso si praticano strategie aggressive di comunicazione, introvabili nella pubblicità classica a fini commerciali. Come le tecniche di manipolazione emotiva degli spot televisivi di campagne contro la denutrizione trasmessi alle ore dei pasti – oppure l’utilizzo indiscriminato di immagini crude di minori sofferenti e in condizioni di estrema povertà.

Il punto centrale è che la recente regolamentazione del settore degli influencer fatta dal governo in reazione al pandoro-gate, non ha nemmeno sfiorato le suddette ambiguità, radicatesi da tempo e risultante di un vuoto normativo esteso e cronico.

È legittimo sospettare che quest’ultimo non sia casuale ma meticolosamente difeso dalle forze politiche dell’intero arco costituzionale con la consueta tattica della selettiva de-regulation per proteggere le proprie aree di riferimento politico ed i bacini di consenso elettorale.

Facendo del mercato dell’aiuto solidale una sorta di monopolio (ombra) di Stato.

Vi racconto il monopolio ombra dell’aiuto solidale. L'opinione di Pellicciari

Uscito dalla tradizionale sfera privata dei rapporti inter-personali, l’aiuto ha avuto una trasposizione nella sfera pubblica, ha aumentato la sua valenza politica, ha perso il carattere neutralista che gli aveva garantito un’aura di sacralità a-critica ed è diventato apertamente interventista. Ora che si è placato il clamore suscitato dal pandoro-gate, è interessante rileggerlo mettendolo in relazione con questo quadro di cambiamenti epocali. L’opinione di Igor Pellicciari, Università di Urbino

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