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(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)

Al netto delle buone ragioni che avrebbe di lamentarsi del trattamento ricevuto nello studio televisivo di La 7, dove ha dovuto difendersi sia dalla conduttrice Lilli Gruber, smaniosa di togliergli la parola ogni volta che non la condivideva, cioè sempre, sia da un Vittorio Zucconi che per poco non lo ha paragonato a Donald Trump, il presidente che da cittadino americano il giornalista di Repubblica non ha votato parendogli forse il suo ciuffo la versione bionda o rossiccia di quello di Hitler, il risegretario del Pd Matteo Renzi dovrebbe darsi una regolata quando evoca orgogliosamente le sue dimissioni da presidente del Consiglio, dopo la batosta referendaria del 4 dicembre scorso. È un merito che egli rivendica ogni volta che ha un microfono, un interlocutore o soltanto una telecamera di fronte. Cioè, sempre.

Non è per niente vero che Renzi sia stato nei 71 anni storia della Repubblica italiana, per non parlare anche del Regno, l’unico capo del governo a sentire il dovere, e persino l’orgoglio, di dimettersi dopo una sconfitta elettorale, peraltro disattendendo l’impegno di ritirarsi anche dalla politica. Lo ha sicuramente preceduto almeno una persona, e sino a qualche mese fa anche compagno di partito, che l’ex sindaco di Firenze dovrebbe conoscere abbastanza bene, sia per averlo riguardosamente ricevuto a suo tempo nel Palazzo Vecchio sia per la disistima, se non per l’odio, o il disprezzo, che da qualche tempo i due si scambiano sistematicamente in pubblico.

Mi riferisco naturalmente a Massimo D’Alema, arrivato in modo improprio – è vero – a Palazzo Chigi nel 1998 cambiando disinvoltamente maggioranza, cioè sostituendo come alleato, o quasi, Fausto Bertinotti con la buonanima di Francesco Cossiga, ma affrettatosi a dimettersi volontariamente un anno e mezzo dopo per avere mancato in un turno di elezioni regionali il numero di vittorie che si era proposto. O, come preferite, per avere perduto più regioni di quante non ne avesse previste. E francamente mi pare che quell’infortunio occorso nel 2000 a D’Alema fosse un po’ meno grave e clamoroso di quello occorso a Renzi nel referendum del 2016 sulla riforma costituzionale, da lui stesso incautamente trasformato in un referendum su se stesso, contribuendo non poco a perderlo con una ventina di punti di distacco fra il no e il sì. E con una spesa, per il partito, di circa 14 milioni di euro.

Visto che ci sono, avrei qualcosa da ridire, sempre per la punta un po’ qualunquistica e farlocca che sottintende, alla maniera grillina, anche sul vanto che egli rivendica di essere rimasto con quelle dimissioni nello scorso mese di dicembre senza stipendio, non essendo parlamentare e non potendo rientrare in qualche posto da cui si fosse messo in aspettativa. Anche questa è una storia un po’ stucchevole dopo la notizia dei centomila euro e rotti ricevuti da una casa editrice, proprio per la notorietà conquistatasi con la politica, come anticipo per un libro che peraltro egli sta tardando a completare, come l’implacabile Lilli Gruber gli ha ricordato prima di togliergli la parola per fine trasmissione.

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