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Nel XX secolo la posizione strategica e militare di Israele è stata orientata in modo tale da convivere con le minacce esistenziali derivanti dalla situazione e dal comportamento dei Paesi vicini, nonché da una serie intermittente di campagne a bassa intensità contro le forze irregolari di guerriglia. Tutto ciò, oggi, è stato messo alla prova dalle conseguenze derivanti dalla cosiddetta primavera araba e della disintegrazione della Siria, trasformatasi in un territorio frammentato, uno Stato fallito coinvolto in un’ingestibile guerra civile. Per comprendere bene l’attuale situazione, innanzitutto, è importante sottolineare che dalla rottura funzionale della Siria e dell’Iraq deriva, per Israele, l’eliminazione di una potenziale minaccia di un conflitto ad alta intensità lungo le linee della guerra dello Yom Kippur del 1973 (guerra combattuta dalla coalizione tra Siria ed Egitto contro Israele, ndr).

Tuttavia, l’attuale realtà ha portato alla ribalta nuove minacce, favorendo la rapida proliferazione di organizzazioni islamiste sub-statali, fiorite nell’assenza di autorità statali forti. Perciò, i due con ni un tempo tranquilli – il Sinai e le alture del Golan – si sono ora trasformati nei fronti più attivi in termini di minaccia alla sicurezza, forzando la ristrutturazione della strategia israeliana. Nel frattempo, organizzazioni sub-statali più vecchie, come Hamas e Hezbollah, assomigliano sempre di più a eserciti convenzionali, per cui potenziali conflitti futuri potrebbero risultare significativamente diversi rispetto al passato. In secondo luogo, l’Iran risulta ormai la più grande minaccia regionale per Israele, e probabilmente per l’intera area mediorientale.

Quanto questa minaccia sia realistica dipende prevalentemente dalle ambizioni nucleari dell’Iran, dalla politica del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e dalla certezza che Teheran metterà alla prova sia la retorica sia le capacità Usa. Nel più breve termine, l’Iran appare pericoloso perché destabilizza la regione come mai avvenuto in precedenza. Il Paese è riuscito a estendere la sua influenza e i suoi intrighi attraverso una serie estesa di conflitti per procura in Libano, Siria, Iraq, Yemen e Gaza, alimentando, in tal modo, le fiamme del conflitto settario. Un effetto collaterale non incidentale è poi il diffuso impegno per creare un nuovo campo di battaglia con Israele nel Golan siriano. In terzo luogo, mentre alcuni fattori sembrano aver marginalizzato l’importanza del conflitto israelo-palestinese, aumentando le chance di cooperazione fra Israele e le potenze regionali, con cui lo Stato ebraico condivide interessi e nemici, l’attuale realtà richiede che Israele prenda delle decisioni in merito alla complessa situazione palestinese.

Lo status quo non è enfaticamente dalla parte di Israele. Ogni giorno in più che passa, la fattibilità di una soluzione a due Stati sembra sempre più remota sia per gli israeliani, sia per i palestinesi, così come per la comunità internazionale. Questo è il risultato della natura frammentaria dell’arena politica palestinese, così come lo è della supposta intransigenza di Israele. La soluzione di un unico Stato o di tre Stati potrebbe essere ben più fattibile rispetto alla soluzione a due Stati, ma appaiono, ad oggi, soluzioni non desiderabili. Inoltre, l’idea che Israele possa solo contare su se stesso potrebbe facilmente tradursi in una profezia che si autorealizza. In definitiva, Israele dovrebbe assumere il controllo del suo futuro. Ci sono certamente opportunità da cogliere e nuove relazioni da sviluppare, ma queste non possono avere successo senza la consapevolezza che Israele deve essere l’arte ce del proprio destino in quanto membro a pieno titolo dell’area mediorientale.

Usi Rabi – DIRETTORE DEL MOSHE DAYAN CENTER FOR MEA STUDIES PRESSO L’UNIVERSITÀ DI TEL AVIV

Traduzione di Valeria Serpentini

Articolo pubblicato sul numero di Formiche di Febbraio

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