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Più che una storia, quella di Mps, la banca senese, è una saga. Un susseguirsi di vicende che hanno segnato la vita di una famiglia. Anche se, in questo caso, si è trattato di una famiglia politica: quel Pci che ha, via via, assunto nomi diversi. Fino al suo ultimo approdo nelle confortevoli stanze di Palazzo Chigi. Per quel crocevia – il Palazzo Salimbeni, sede centrale della banca che fu fondata nel 1472 – sono passate intere generazioni di dirigenti: da Silvano Andriani a Giuseppe Mussari. Ciascuno dei quali aveva nella direzione del partito i suoi referenti specifici. In Toscana circola ancora una vecchia battuta: i senesi hanno accumulato risparmi per oltre 500 anni. Poi la grande sottrazione da parte di un ceto politico che aveva, scoperto, seppure in tarda età, il grande gioco del risiko bancario. Ed ecco allora il susseguirsi delle acquisizioni: da Banca 121, all’Agricola mantovana, per finire con Antonveneta. In un susseguirsi di piccoli disastri.

Roba da Prima Repubblica. Continuata, tuttavia, nella Seconda e difficilmente destinata a risolversi in un periodo piuttosto breve. Chi pensa che l’intervento del Tesoro sia solo una parentesi, destinata a chiudersi con una successiva riprivatizzazione, non ha fatto i conti con gli andamenti di fondo del mercato finanziario. Non solo italiano. In un recente studio della McKinsey si ipotizza uno scenario che più cupo non si può. Quattro anni d’inferno. Segnati dalla caduta a picco del Roe – reddito netto sul capitale netto – dovuto sia alla politica monetaria, che riduce i margini di intermediazione bancaria, sia alla rivoluzione digitale, che determina personale in esubero. Che sarà difficile smaltire. In questo scenario non sarà semplice trovare compratori disposti a rischiare, se non a rivendendo a prezzo di realizzo.

Se le previsioni fossero esatte, quegli 8,8 miliardi, che rappresentano il costo dell’operazione per il Tesoro, rimarranno quindi sul groppone dello Stato italiano. Alias su tutti noi contribuenti, che nel 2018, a bocce ferme, dovremmo far fronte ad una manovra di altri 20 miliardi: solo per evitare l’aumento dell’Iva e del carico fiscale che l’ultima legge di bilancio ha traslato sui futuri conti pubblici. Non è quindi una prospettiva rassicurante. Ed allora vale la pena riflettere sui più recenti errori compiuti nella gestione della crisi di Mps. Mentre per le altre banche, che pure devono essere salvate con i 20 miliardi stanziati dall’ultimo decreto, si prospetta una strada altrettanto accidentata.

Tutte le scelte più recenti, a favore di Mps, si sono dimostrate un fallimento. A metà settembre, come si ricorderà, Fabrizio Viola, Ad della Banca, si era dimesso per lasciare il posto a Marco Morelli della Merrill Lynch. Alle spalle del primo erano gli insuccessi realizzati nella gestione della banca, dopo due aumenti di capitale per 8 miliardi, che non avevano inciso, in modo significativo, sugli equilibri finanziari dell’Istituto. Ancora oggi, tutti i passaggi di quella vicenda non sono chiari. il vecchio board aveva già predisposto un piano d’intervento per 5 miliardi da reperire sul mercato. Gli advisor – Jp Morgan e Mediobanca – dietro compensi milionari dovevano assistere l’operazione, grazie ad un prestito ponte, in attesa di giungere alla sottoscrizione dell’aumento di capitale. Avevano quindi preteso – stando ai rumor – che un loro uomo, Marco Morelli appunto, divenisse il nuovo capitano.

Nel frattempo l’Italia si fermava. Il referendum costituzionale era alle porte. Ed erano in molti a temere o sperare sul suo possibile esito. Sta di fatto che si è perso del tempo prezioso. E mentre tutto ristagnava, i risparmiatori, terrorizzati dal possibile bail -in, tiravano i remi in barca. Si calcola che negli ultimi mesi circa 14 miliardi, l’11 per cento del totale dei depositi, hanno preso un’altra strada. Ritirati dalla banca per approdare verso sponde più sicure. Ed ecco allora che alla vecchia crisi non risolta se ne aggiunta una ancora più perniciosa, data dalla diminuita liquidità, che ha complicato ogni cosa. Il che spiega perché quei 5 miliardi, un tempo ipotizzati, ora sono cresciuti come un soufflé per giungere agli 8,8 che la Bce ci ha imposto come prima condizione. Altre probabilmente ne seguiranno.

Restano tuttavia alcuni piccoli grandi misteri. Che fine ha fatto il fantomatico Fondo del Qatar che doveva investire 1 miliardo? Soprattutto: c’è mai stato? Quali erano gli affidamenti forniti agli advisor, che avevano avallato il piano del semplice ricorso al mercato? Possibile che impegni così vincolanti possono all’improvviso sparire come nebbia al mattino? Secondo interrogativo: il rimborso ai possessori di obbligazioni subordinate. Devono essere tutti garantiti? Anche coloro che recentemente hanno comprato quei titoli, a prezzo di realizzo, sul mercato secondario? Fosse così, vi sarebbero plusvalenze milionarie. Il tutto, naturalmente, a carico di noi poveri contribuenti. Non sarebbe più equo garantire solo quei piccoli risparmiatori che hanno tenuto i titoli per un periodo sufficiente lungo, che scavallasse il tempo dell’insider trading? E perché mai si rimborsano, seppure al 75 per cento, gli investitori istituzionali, quando nel caso delle altre quattro banche – Etruria, Marche, Ferrara e Chieti – sono scattate procedure molto più rigorose? Interrogativi, al momento, senza risposte. Ma ci sarà tempo per sapere. La saga Mps è, purtroppo, destinata a durare.

babele politica

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