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Egregio Direttore,

è raro leggere giudizi sulla proposta di legge approvata (solo) dalla Camera giovedì 20 aprile sul c.d. “testamento biologico” come quelli di Benedetto Ippolito su Formiche.net, secondo cui si sarebbe addirittura di fronte a un “materialismo, frutto di una crisi antropologica, che segnala una totale rottura dei nostri legami culturali con l’intera storia dell’umanesimo occidentale”.

Da dicembre ho seguito passo-passo l’iter parlamentare, grazie alla operosa condivisione del lavoro con alcuni deputati, con i quali ci siamo aiutati a stare, parola per parola, emendamento per emendamento nel dialogo appassionato e costante con tutti sui contenuti, espliciti ed impliciti, del provvedimento in esame.

Perciò, alla fine a alla luce di questo intenso percorso, la grave provocazione del giudizio di Ippolito non può non essere verificata.

Un caveat, però!

Quei pochi che, come me, non hanno votato questa proposta sono, comunque e certamente, favorevoli sia al consenso informato, sia alla possibilità di DAT (“disposizioni anticipate di trattamento”) proporzionate alla situazione reale, così come rimangono contrari alle pratiche di accanimento terapeutico. Ancora: non è in discussione la libertà di ciascuno di disporre della propria vita, ma piuttosto se il Servizio Sanitario Nazionale debba essere a servizio della vita o anche della morte.

E spiace che – nonostante l’ossessiva ripetizione di tali nostre convinzioni – non pochi abbiano continuato a mistificare sul punto, evidentemente cercando banali alibi per non guardare in faccia agli autentici scopi di questa iniziativa, per fortuna onestamente ammessi da molti deputati pentastellati: aprire una breccia nella cultura italiana, ben sapendo che, come insegna San Tommaso, una legge propone sempre, per sua natura, un obiettivo e una direzione a tutta la società.

Veniamo ora al punto.

Quali sono i contenuti che, nonostante i miglioramenti del testo ottenuti in Commissione e in Aula, ancora condizionano sensibilmente il “biotestamento all’italiana”, e che discendono da precise matrici ideologiche?
E’ rimasto, in primo luogo, un “valore praticamente definitivo” (già così stigmatizzato nella prolusione del card. Bagnasco del 20 marzo 2017, cui si riferiscono anche le successive citazioni) delle DAT, espressione di una presunzione culturale che ritiene possibile misurare a priori la realtà, tentando, così, di esorcizzare e imbavagliare il tempo in cui essa si farà urgente in circostanze dolorose. Qualche parlamentare in aula ha avuto la lucidità di ammettere che si è preteso di legiferare sull’ignoto o, meglio, sul mistero.

Va, poi, riconosciuta la concezione antropologica che emerge da questa proposta, derivante, innanzitutto, da un’idea individualistico-libertaria, che propone un uomo “sciolto da legami e responsabilità”, isolato non solo dalla dimensione familiare e comunitaria, ma persino dalla “compagnia” qualificata del medico.

Invece, la realtà dice che, specie nei momenti più gravi, il desiderio della condivisione e, per opposto, la paura della solitudine sono fattori che ognuno può riconoscere su di sé, cosicché l’enfatizzazione di una solipsistica autodeterminazione descritta nell’atto della Camera deriva dal voler, astrattamente e ideologicamente, affermare l’immagine dell’uomo come “padrone assoluto di una vita che non si è data”.

Si suggerisce, inoltre, un’idea di uomo a “dignità variabile”, che può essere, cioè, curato di meno, anzi può essere proprio lasciato morire, anche di fame e sete, se – malato – tradisce i canoni della mentalità dominante.
Quante volte in aula e in passaggi normativi espressamente approvati si è fatto riferimento al diritto ad avere una vita “dignitosa”? E la clinica svizzera che ha assistito il suicidio di dj Fabo non si chiamava forse “dignitas”? Di fronte, cioè, a una disabilità o a una cronicità patologica, ovvero in vista di una “evoluzione con prognosi infausta”, i medici del Servizio Sanitario Nazionale potranno anche cooperare acriticamente a esiti negativi o fatali per la salute, ad esempio interrompendo i trattamenti o omettendo interventi di emergenza e urgenza condizionanti la sopravvivenza stessa in determinate circostanze.

Dunque, il concetto di “DIGNITÀ” sotteso a non pochi passaggi della proposta di legge è connesso alla capacità del soggetto di performare, di essere utile per la società. Si tratta di una concezione di “dignità” che è in mano – con buona pace della sinistra – alla mentalità dominante e ai poteri, soprattuto economici e mediatici, che la condizionano. Chi è inabile, chi non ha utilità economiche e sociali, chi soffre non ha, per questa mentalità, una “dignità” pari a chi corrisponde ai canoni comuni. Diceva qualche giorno fa Chantal Borgonovo: “Non siamo più capaci di accettare la vita stessa che è fatta anche di cose difficili. La malattia fa parte della vita. Come la nascita e la morte. Noi allontaniamo tutto. È tutto rapportato al successo” (intervista a Tracce, aprile 2017, pag. 33). E così, l’individualismo esasperato da cui si è partiti conduce, paradossalmente, la persona ad essere “ostaggio della società”.

Vi è però una prospettiva antropologica diversa, efficacemente scolpita dal monito di Giovanni Paolo II, che ci chiede di “non essere signori della vita, né conquistatori della morte” (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 1985).

Vi è, cioè, la possibilità di una “dignità” legata alla presenza della vita in quanto tale, perché si riconosce che, qualsiasi sia la condizione di vita, essa è assoluta, pienamente rispettabile. In questa prospettiva, la sofferenza, l’imperfezione, il dolore non spengono, ma anzi acuiscono, per chi si trova in queste situazioni così come per coloro che sono a fianco di queste persone, il desiderio di significato della propria vita.

E il desiderio di significato, la domanda di verità, di bellezza, di giustizia che albergano e si accendono nel cuore di ogni uomo, anche e soprattutto nel dolore, sono il proprium dell’umano, ciò che lo rende grande, ciò che fa ritenere ugualmente “dignitosi” un sovrano e un mendicante, un campione e un disabile.

Teorie? Si, se vogliamo fingere di non vedere le tante commoventi testimonianze di persone che nelle situazioni più gravi mostrano una bellezza di vita, che confuta una dignità ridotta ai parametri della performanza sociale.

Ed è la prospettiva assunta – si crede – anche dalla Carta Costituzionale, agli artt. 2, 3 e 32, che senza grande successo abbiamo provato a proporre in questi mesi con specifici e puntuali emendamenti e che, semplicemente, volevano essere un modo per porre la domanda rivolta al Parlamento qualche giorno fa proprio da un direttore di un servizio di cure palliative di una importante ULSS: “Perché abbiamo una gran fretta ad assicurare il ‘diritto’ di morire prima di aver fatto tutto il possibile per garantire a chi è in condizioni incurabili o croniche la stessa accoglienza, lo stesso rispetto, le stesse opportunità senza limitazione di temo dovute a tutti gli altri?” (Tracce, aprile 2017, pag. 30).

Tutti, perciò, dobbiamo sentirci impegnati affinché nel successivo iter parlamentare risuoni più alto e più ascoltato il grave monito – che fa eco a quello di Ippolito – lanciato ancora dalla moglie di Stefano Borgonovo: “L’andarsene oggi diventa la fissa, non il vivere”.

On. Domenico Menorello

dat, rosaverdinellum

Appunti parlamentari sulle Dat

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