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Ci siamo illusi che il 14 gennaio 2017, il Consiglio dei ministri, avesse varato con giudizio i decreti legislativi di attuazione della legge sulla cosiddetta Buona scuola ma quegli 8 (ne manca uno) dei nove, non ci hanno aperto quella porta che attendavamo almeno in uno spiraglio verso il 2020. I decreti riguardano: il sistema di formazione iniziale e reclutamento nella scuola secondaria (Decreto n.377); l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità (Decreto n.378); la revisione dei percorsi dell’istruzione professionale (Decreto n.379); educazione e istruzione dalla nascita fino a sei anni (Decreto n.380); il diritto allo studio/Decreto n.381); la promozione della cultura umanistica (Decreto n.382); le scuole italiane all’estero (Decreto n.383); valutazione ed esami di Stato (Decreto n.384).

Manca il decreto sulla revisione del Testo unico sulla scuola, per il quale è previsto un disegno di legge delega specifico e successivo. Questa mancata revisione evidentemente, ha serie conseguenze: il permanere e l’ampliarsi di una selva di norme diventate illeggibili, fatte di continui rimandi e aggiunte: solo questi 8 decreti prevedono 30 nuovi atti applicativi (Regolamenti, decreti ecc..) e 4 nuovi organismi; si va di nuovo al Contratto senza un nuovo Stato Giuridico, che è una delle parti centrali del Testo Unico. E così, molte questioni cruciali rimarranno irrisolte, come la differenziazione di carriera dei docenti e la creazione di una leadership intermedia.

Gli 8 decreti sono ora al vaglio delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza Unificata per l’apposito parere. La prima perplessità riguarda la necessità di avanzare una moratoria perché su formazione, reclutamento, stato giuridico del personale di sostegno siamo ancora l’unico paese in cui non si riqualificano i bidelli ma si chiede solo l’aumento numerico. E poi per gli studenti diversamente abili, cioè quelli che più degli altri hanno bisogno e diritto di aiuto, non viene definito lo stato giuridico degli insegnanti di sostegno e la scuola dell’infanzia e primaria rimane divisa dalla secondaria.

La formazione di questi insegnanti rimane differente, resta una professione di passaggio verso le cattedre normali, la proposta di “ferma” per 10 anni sarà spazzata via da accordi sindacali, non è garantita la continuità, che viene proposta in termini di “si può” e non di “si deve”, gli “organismi territoriali per il supporto all’inclusione”, rimangono organismi legati alla scuola, non al percorso di vita del ragazzo con disabilità. Bisogna invece rinnovare il modello dell’insegnante di sostegno riorganizzando il loro ruolo ridefinendo un nuovo tipo di professione specialistica di supporto all’inclusione dei bambini e dei giovani con disabilità.

E’ indispensabile definire uno stato giuridico e contrattuale specifico e unico per tutti gli insegnanti di sostegno, che ne determini compiutamente il profilo. In questa ottica ritengo che l’orario con gli alunni debba essere uguale in ogni ordine e grado di scuola, e in particolare ammontare a 25 ore settimanali (prendendo a riferimento l’orario degli insegnanti del grado scolastico dove funziona meglio: la scuola dell’infanzia), a cui vanno aggiunte le 80 ore annuali, oppure, e sarebbe meglio, un orario onnicomprensivo di 30 ore settimanali. L’insegnante di sostegno deve garantire stabilità nella scuola e nella rete e non vivere il proprio ruolo come un transito verso la cattedra “ normale”, parimenti gli va garantita stabilità di sede anche se non ancora di ruolo, anche perché alle persone disabili serve una insegnante di riferimento il più possibile certa con la quale stabilisce un rapporto anche di fiducia e di affetto. Deve dunque essere un professionista nel campo della disabilità, per grandi aree socio-sanitarie, con formazione universitaria, di cui bisogna costituire il percorso curricolare. Un percorso che comunque non deve coincidere né con quello degli insegnanti della scuola primaria né con quello degli insegnanti disciplinaristi della secondaria. Ma è un professionista per tutti gli ordini e gradi di scuola, senza distinzione, e non è comunque relegato al solo ambito scolastico. La specializzazione universitaria deve consentirgli di operare per così dire “a mercato aperto” (dipartimenti socio-sanitari, associazionismo, collegamenti con gli ambiti lavorativi, case di cura, ecc). Deve avere un proprio profilo professionale, uno specifico codice di comportamento, un contratto professionale con orario professionale pieno. E nessuna previsione di passaggio alla carriera docente, perché non è un docente e non ha svolto carriera accademica per fare l’insegnante.

Il suo compito si svolge nella scuola a sostegno degli insegnanti, ma anche fuori di essa a sostegno delle famiglie. E fondamentale saranno gli organismi territoriali per il supporto all’inclusione, gestiti dagli Enti Locali. Sono assolutamente necessari, ma non devono essere esclusivamente rivolti alla scuola, come appare dal decreto. D’intesa con la Conferenza Stato regioni occorre prevedere: un servizio integrato per l’inclusione dei disabili (integrato nel senso che metta in collegamento la rete di scuole, il servizio socio sanitario, il servizio socio-assistenziale degli enti locali, le associazioni delle famiglie e il volontariato di sostegno per l’animazione e il tempo libero), che abbia responsabilità anche gestionali e di direzione, responsabilità per i rapporti con gli specialisti, con le famiglie, con la ricerca e l’università, per la programmazione delle formazione continua, ecc; un servizio con funzione anche di sportello unico per i genitori, in modo da costituire un punto di riferimento per le famiglie per il disbrigo delle pratiche burocratiche, per le certificazioni, per i permessi, per le relazioni con enti e altri servizi e per l’aiuto alla collocazione nel mondo del lavoro.

Scuola e disabilità, ecco cosa si può fare

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