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Il D-day del ministro dello sport Luca Lotti, toscano di Empoli, 33 anni da compiere il 20 giugno, già sottosegretario dell’amico Matteo Renzi alla presidenza del Consiglio per mille e più giorni, è stato quindi fissato per mercoledì 15 marzo. Che nell’antica Roma era il primo giorno di primavera. Un giorno quindi festoso, funestato però nel 44 avanti Cristo, e perciò passato tragicamente alla storia, dall’uccisione di Giulio Cesare.

Anche Lotti dovrà andare mercoledì prossimo al Senato, dove i grillini sono riusciti a “calendarizzare” la loro mozione di sfiducia personale per il suo coinvolgimento nelle indagini sugli appalti della Consip. Egli è infatti sospettato di avere passato -in verità non da solo, ma insieme con due generaloni dell’Arma dei Carabinieri- l’informazione giusta ai vertici della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione per rimuovere dai loro uffici le microspie fatte installare dalla Procura di Napoli, assistita dai Carabinieri del nucleo operativo ecologico.

A questi ultimi, scelti in particolare dal sostituto procuratore Henry John Woodcoock, Vudcoc per gli ignorantoni, il capo della Procura di Roma, titolare di un troncone di quell’inchiesta, ha poi tolto l’incarico, e la fiducia, per le troppe fughe di notizie, cioè violazioni del segreto, giunte ai giornali. E per la conseguente intossicazione, fra l’altro, del dibattito politico, a cominciare dalle primarie e dal congresso del Pd. Dove il principale aspirante alla carica di segretario è non solo amico di Lotti ma anche, diciamo pure soprattutto, il figlio di Tiziano Renzi, anche lui indagato, ma per il reato di traffico di influenze illecite.

Il padre dell’ex presidente del Consiglio ha invitato gli inquirenti, nelle 4 ore di interrogatorio subìto di recente, di tradurre più semplicemente quel reato, nel suo caso, in “abuso di cognome”: un abuso, però, compiuto non da lui, ma dagli amici che, a sua insaputa, lo hanno speso per procacciarsi appalti, commesse e quant’altro. Si vedrà se gli inquirenti gli crederanno, chiedendo l’archiviazione del caso, o no.

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Diversamente da Cesare, il ben più modesto Lotti da Empoli non correrà al Senato la settimana prossima rischi fisici. I pugnali dei suoi avversari politici sono solo voti per promuoverne la fine o interruzione dell’esperienza ministeriale. E tra i parlamentari della maggioranza che sostiene il governo non si vede il Bruto di turno, visto che il governatore pugliese Michele Emiliano, concorrente pure lui alla segreteria del Pd e convinto che l’amico di Renzi debba dimettersi per “generosità” verso il partito, non è un senatore della Repubblica.

D’altronde il capogruppo piddino a Palazzo Madama, Luigi Zanda, uomo prudente che sa fare i conti in queste circostanze, ha già scommesso pubblicamente sul fatto che la mozione grillina, per quanto votata anche dai leghisti, dalla destra post-fininiana di Giorgia Meloni e da brandelli della sinistra che è riuscita ultimamente a dividersi in ben cinque partiti con la scissione del Pd, sarà respinta “con i soli voti della maggioranza”, al netto quindi dell’aiuto a Lotti già annunciato dai senatori di Forza Italia e altri esponenti di quella che formalmente è l’opposizione.

Ma se questa è la situazione, e questi sono i numeri, perché i grillini e i loro occasionali alleati hanno insistito tanto nell’offensiva contro Lotti e, più in generale, almeno nelle loro intenzioni, contro il governo? E’ chiaro: per motivi di propaganda, di palcoscenico, di teatro, così congeniale d’altronde al capo del movimento 5 Stelle: un grandissimo comico, da audience e incassi eccellenti, prestatosi alla politica per fare ciò che è stato per vent’anni il sogno di qualche magistrato di rivoltare l’Italia come un calzino. La forma dello stivale, del resto, il Paese già ce l’ha di suo, per decisione della natura.

Nel loro assalto alla politica, agli altri partiti, alle “caste”, alle stesse istituzioni, sui cui tetti salgono per protestare la loro diversità e non rimanere intossicati dall’aria che respirano quando sono dentro, non all’aperto, i grillini sono riusciti a conquistare quella che, forse senza esagerare, Angelo Panebianco ha appena definito sul Corriere della Sera una “egemonia culturale”. E ciò purtroppo -ha osservato non a torto l’editorialista del primo giornale italiano, con la complicità di quanti a destra, a sinistra e al centro, compreso -aggiungo io- lo stesso Renzi in tante occasioni che avrebbe potuto risparmiarsi, hanno avuto l’illusione di contrastare i grilli inseguendoli sullo stesso terreno. Eppure è arcinoto che alle copie di solito si preferisce l’originale.

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Va infine detto che, per quanto possa essere importante l’autosufficienza della maggioranza sulla quale ha scommesso il capogruppo del Pd al Senato, con la sfiducia al ministro Lotti tentata da grillini e amici o compagni – che dicono, come nel caso della Lega, di correre loro dietro per provocare la crisi, e con la crisi le elezioni anticipate- il governo in questo D-day di Luca da Empoli non corre nessun rischio.

La sfiducia è “personale” e non si porta appresso il governo di turno. Vi è un precedente che forse i grillini, nella loro abituale improvvisazione, non conoscono. È la sfiducia votata proprio al Senato nell’autunno del 1995 contro l’allora ministro della Giustizia e magistrato in pensione Filippo Mancuso, che aveva osato mandare gli ispettori del suo dicastero in quel santuario che era considerato il Tribunale, più in particolare la Procura della Repubblica di Milano. Dove si cercava, come si è già accennato, di rivoltare il Paese con le mani pulite degli inquirenti alle prese con Tangentopoli, come fu chiamato il fenomeno diffusissimo del finanziamento illegale della politica e della corruzione che, secondo l’accusa, lo accompagnava sistematicamente nella presunta consapevolezza dei segretari dei partiti. O almeno di quelli maggiormente presi di mira con una selezione degli obiettivi su cui nessuno ha voluto poi fare accertamenti seri: né giudiziari né politici, visto il fallimento di tutti i tentativi di istituire una commissione d’inchiesta parlamentare.

La legittimità della vicenda Mancuso, intesa come possibilità di sfiduciare un ministro senza coinvolgerne il governo, fu peraltro sancita dalla Corte Costituzionale, alla quale il guardasigilli deposto aveva fatto inutilmente ricorso.

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