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Con la nomina di Steve Bannon a principale stratega della Casa Bianca di Donald Trump, tornano alla ribalta i Tea Party, i raggruppamenti conservatori di base sorti nel 2009 in risposta alle politiche di sinistra radicale della presidenza Obama. Mentre nelle strade d’America si fanno le prove generali di insurrezione, incitate da una Hillary Clinton disposta a interrompere l’elaborazione del lutto per chiamare a “non arrendersi mai” e a “continuare a combattere per i nostri principi”, il presidente-eletto prosegue nelle nomine di personaggi “alt-right”, della nebulosa area di destra alternativa, fra cui risulta particolarmente indigesto Steve Bannon, un nome associato ai Tea Party.

Ex ufficiale di marina, ex bancario alla Goldman Sachs, un Master preso alla Harvard Business School, reaganiano e cattolico, Bannon è passato, il 17 agosto scorso, da amministratore delegato della rete mediatica online Breitbart News a dirigente della campagna elettorale di Donald Trump. Lì, mentre tutti i grandi media, nessuno escluso, parlavano di Trump come di poco più di una macchietta di cattivo gusto, Bannon, dal web, tastava il polso della gente e, spendendo la metà di Hillary, guidava Trump a una vittoria che nessuno si aspettava.

Così, dopo la nomina a stratega-capo dello staff del Presidente-eletto, i media beffati hanno scatenato contro di lui accuse universali di razzismo, antisemitismo, misoginia, xenofobia, nazionalismo bianco, nonché paragoni con il ministro della propaganda hitleriana, Goebbels.

Di questa congerie di offese, l’accusa meno attendibile è quella di anti-semitismo, visto che Bannon non richiama l’Occidente alle sue radici cristiane ma giudeo-cristiane, e visto che il fondatore di Breitbart, Andrew Breitbart, così come altri soci di Bannon, è egli stesso un ebreo. Su tutte le varie accuse ha tentato una ricognizione Kathleen Parker del Washington Post, traendo, da chi ha avuto materialmente, e non solo virtualmente, a che fare con lui, valutazioni come: “Gentiluomo, stratega, sempre educato, brillante, combattente, attivista, parla chiaro, assieme a non me ne fido”.

Le accuse a Bannon di razzismo sono in linea con le accuse ai Tea Party, movimento di difesa dei principi costituzionali eclissato dai media dopo che nel 2011 un folle a Tucson, Arizona, sparò a una parlamentare democratica, che sopravvisse, mentre un giudice repubblicano nella sparatoria perse la vita, ma di quest’ultimo nessuno parlò. I Tea Party non c’entravano niente ma furono accusati di essere i mandati morali della strage per aver “fomentato odio”.

Bannon non fa parte dei TP ma li ha sempre sostenuti lealmente, scrive Jenny Beth Martin, leader del movimento, che racconta di averlo conosciuto durante una delle prime manifestazioni contro la riforma sanitaria di Obama. Lo stratega mediatico era presente per filmare la protesta, che segnò l’inizio delle accuse ai TP di razzismo. Su suggerimento di Bannon, che ci mise del suo, Andrew Breitbart offrì una ricompensa di 100 mila dollari a chiunque portasse le prove della verità di queste accuse. Bannon, scrive la Martin, aveva constatato che i TP non solo non erano razzisti ma erano pacifici, educati e rigorosamente ordinati (ci tengono a lasciare i luoghi delle manifestazioni più puliti di quando ci arrivano). Nessuno si fece avanti, nessuna prova emerse.

Bannon si definisce capitalista ma esclude sia il capitalismo statalista della Cina, sia il capitalismo anarchico di Ayn Rand, promuovendo invece il “capitalismo cristiano illuminato”, che utilizza il guadagno per moltiplicare la prosperità. Nel 2014 l’ex-investment banker partecipò via Skype a una Conferenza sulla povertà organizzata presso il Vaticano dal Human Dignity Institute, una voce cristiana sulle politiche europee, il cui Comitato consultivo è presieduto dal Cardinale ratzingeriano Raymond Burke. In un intervento proiettato nell’aula della conferenza che si teneva dall’altra parte dell’Atlantico, Bannon parlò dell’esistenza di un “movimento globale di Tea Party”, e lodò i partiti anti-Unione europea come l’Ukip di Nigel Farage e il Front National di Marine Le Pen.

All’epoca le vittorie di Trump e della Brexit erano ancora di là da venire, ma i Tea Party rappresentavano chiaramente la difesa dei principi americani tradizionali di sovranità popolare e conseguenti limiti ai poteri del governo, a partire dal limite al potere di imporre le tasse.

Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

Stephen Bannon - Youtube

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