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Donald Trump deve molto della sua elezione all’elettorato religiosamente identificato. C’è il sostegno di quello cattolico – il 52 per cento secondo gli exit polls –, ma soprattutto hanno vinto gli evangelici: 81 per cento con Trump e 16 per cento con Clinton. E’ il più grande margine per qualsiasi candidato presidenziale del Grand old party di sempre. E della sua visibilità Trump non può, paradossalmente, non ringraziare anche Francesco.  Il Papa che a febbraio, e ancora il 5 novembre, reagendo verso chi vuole costruire muri, ha tagliato il repubblicano fuori dai confini del cristianesimo. “La resistenza del Papa ha innescato un antagonismo in Trump che ha scatenato il presbiteriano della domenica che è in lui, che così si è rafforzato davanti all’elettorato evangelico come uomo capace di non farsi intimidire dal papa che viene dal sud del mondo”, dice in una conversazione con Formiche.net Alberto Melloni, storico, studioso di storia del cristianesimo e direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII.

“Francesco non ha mai riconosciuto liberatorio il ruolo degli Usa in America Latina, ma semmai come di oppressione”, aggiunge lo storico della Chiesa. Interessante sarà vedere come la durezza del duello tra Vaticano e Usa – che Melloni non esita a prevedere “lacerante” – si combatterà nei prossimi mesi. Il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha evidenziato la differenza tra essere candidato e presidente eletto: “Si è già espresso in termini da leader”, commentava mercoledì mattina il cardinale a poche ore dal primo discorso di The Donald. “Ma quello è un discorso di riconciliazione nazionale che non poteva che essere pronunciato in quei termini – secondo Melloni – La verità è che siamo sprofondati nel burrone. Trump è uno spregiudicato, la sua è una cultura dello scontro che non può che portare a conseguenze. Il suo impianto di fondo è questo. Anche Obama è stato meno liberal durante la sua presidenza di quanto si era mostrato nelle campagne elettorali, così Trump alla Casa Bianca sarà meno spietato di come si è dipinto in questi mesi, ma sarà comunque la stessa persona”.

Difficile prevedere se l’episcopato Usa si muoverà compatto, diviso tra anime conservatrici che si riconoscono in Trump e spinte progressiste. “E’ quello un cattolicesimo molto diviso e polarizzato, fatto di militanza e di tensioni etiche intense, ben diverso da quello europeo”, secondo lo storico. Francesco, prima con la nomina, due anni fa, di un uomo a lui molto vicino per sensibilità, monsignor Blase J. Cupich, alla terza diocesi degli States, quella di Chicago, quindi la sua recente promozione cardinalizia, continua a mostrare ai vescovi degli States che linea intende seguire, e sta dettando l’agenda alla Conferenza episcopale. Conferenza che ieri in un comunicato post voto ha cercato di mettere insieme tutte le istanze dottrinali della Chiesa cattolica: accoglienza di profughi e rifugiati, ma anche tutela della vita dal concepimento alla morte naturale e difesa del matrimonio tra uomo e donna. Una breve nota dell’arcivescovo Cupich ha significativamente puntato invece su “giustizia per tutti, uguaglianza, fraternità e pace tra le nazioni, servizio ai bisognosi e a chi è ai margini della società”. Dunque su “compassione e solidarietà”.

Il cambiare rotta per Bergoglio significa che certe sacche di resistenza dei vescovi Usa devono cedere e smetterla di tuonare dai pulpiti sui cosiddetti principi non negoziabili, che del resto Francesco ricorda “essere già noti”. Con Trump sarà più marcato il protagonismo che il Papa preso quasi dalla fine del mondo chiede ai suoi uomini sul campo affinché si occupino di emarginati e poveri, senza insistere su aborto, diritti gay e altro. Osserva Melloni: “Alla Chiesa può tornare comodo fare un discorso anti abortista quando c’è un governo ostile su questi temi, viceversa se il potere pubblico prevede scontri e limitazioni, non prenderà posizione”. Si profila così una partecipazione alla vita pubblica di tipo diverso, più attenta agli ultimi.

Ma se Bergoglio non ha mai avuto simpatia per Trump, perché dargli la possibilità di emergere come difensore di quell’eccezionalismo americano (quello storico e quello del Make America Great Again di Donald) al quale il pontefice non crede? Risponde Melloni: “Bergoglio sapeva di poter rompere con Trump. Ma è un gesuita, e per questo un militare. Non ha certo paura del conflitto”. Ovvero, come scriveva in Evangelii gaudium, di occuparsi di “iniziare processi più che possedere spazi”, soprattutto nell’attività politica. Privilegiando le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi. “E’ evidente che le posizioni conservatrici e di condanna sono più facili – commenta Melloni – Francesco spinge oltre, ad una più stringente responsabilità personale”.

E’ da attendere al varco come questa responsabilità la tradurrà in pratica Trump su immigrazione, povertà, rapporti internazionali e naturalmente, aborto e altri temi “non negoziabili”. Qualora esistano temi davvero “non negoziabili”, corregge Melloni. C’è allora forse sullo sfondo una possibilità di arretrare rispetto al dialogo ecumenico che è tanto caro a Bergoglio, vista la piena soddisfazione del patriarcato ortodosso di Mosca per l’esito elettorale Usa? Per lo storico del Concilio non è questo il punto: a Francesco interessa la comunione con tutta l’ortodossia, non si ferma davanti alle posizioni di quella Usa, in massima parte allineata su posizioni conservative.

Piuttosto, ad appassionare il direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, è quanto il senso dell’esito del voto americano che ha eletto Trump può anticipare in Italia di interpretazione dell’appuntamento referendario: “In America abbiamo assistito alla fine della mentalità della generazione della guerra fredda, quando si puntava a far vincere il meno peggio. Oggi è il contrario: funziona il peggio”.

Cosa succederà fra Donald Trump e Papa Francesco. Parla lo storico Melloni

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