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Prosegue, con implacabile costanza, la battaglia pressoché inosservata che i regolatori hanno ingaggiato ormai da anni per arrivare a una sostanziale rivoluzione del modello che finora – e non è esagerato dirlo – ha retto in piedi le finanze pubbliche di molti stati. Ossia la prassi di molte banche commerciali di acquistare bond pubblici del proprio paese di residenza.

L’ultima puntata di questa lunga contesa si è svolta pochi giorni fa, durante l’Ecofin, quando si è consumata l’ennesima spaccatura europea proprio sulla proposta sponsorizzata da alcuni paesi nordeuropei, Germania in testa, di porre limiti al possesso di titoli di Stato da parte delle banche. Il fronte del no, nel quale militano Francia e Italia, ha impedito che la proposta evolvesse in norma. Ma sbaglierebbe chi pensa che sia finita qui.

La questione infatti, pure se al momento è stata derubricata dal tavolo dei politici, rimane ben aperta su quella dei regolatori internazionali, e in particolare il Comitato di Basilea, ai quali i politici dell’Ecofin, e non a caso, hanno dichiarato di volersi ispirare. Non si tratta di uno stop, perciò, ma solo di un rinvio. Vale la pena perciò riepilogare il perché e il percome.

All’indomani della crisi del 2010, e in particolare nel 2011, nel nostro Paese la tendenza delle banche a comprare titoli di Stato è diventata dilagante. Di fronte alla sparizione degli acquirenti esteri le banche commerciali sono diventate grandi prenditrici di debito pubblico italiano, con ciò – a volerla vedere in chiave patriottica – contribuendo a stabilizzare gli spread. Oppure, volendola vedere in chiave più utilitaristica, così facendo le banche si sono riempite di debito “sicuro” che rivestiva il notevole vantaggio di non richiedere accantonamenti prudenziali, e quindi capitale, per essere sostenuto. Questi motivi, probabilmente concorrenti, sono quelli che hanno originato l’idea che occorra spezzare il nesso fra sistemi bancari e stati sovrani.

Il problema, secondo molti, è tutto qua. Da una parte questo sistema garantisce agli Stati che qualcuno comprerà i suoi titoli. Dall’altra le banche avranno sempre un investimento “sicuro” e poco costoso in termini di capitale che le renderà meno interessate ad esplorare investimenti alternativi. Questa visione, che la Bundesbank è stata la prima a sponsorizzare, piano piano ha scalato i piani alto della Bce che, non a caso, ne tratta nel suo ultimo rapporto annuale.

“La recente crisi finanziaria – ha scritto la Bce – ha dimostrato l’inadeguatezza della nozione implicita secondo cui il debito sovrano è privo di rischio, rendendo necessaria una revisione dell’attuale schema di regolamentazione del rischio sovrano. La modifica della regolamentazione finanziaria in questo ambito richiede una soluzione globale che garantisca alle banche condizioni di parità”

Di recente, inoltre, il tema è finito all’attenzione dell’Esm, e anche della Banca d’Italia, che ha pubblicato un paper nel quale si evidenziano i rischi per la stabilità macroeconomica e finanziaria che potrebbero derivare da una regolazione più stringente sulla materia. Quest’ultima è già oggetto di un’attività di revisione della quale si sta occupando il Comitato di Basilea, che agisce nel seno della Bis, e al quale è stato demandato l’incarico di trovare una difficile quadratura del cerchio. Difficile perché bisogna tenere conto degli effetti che tale regolazione potrebbe avere su economie assolutamente differenti, con sistemi bancari differenti e condizioni di finanza pubblica che lo sono altrettanto.

“Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria – sottolinea la Bce – guida il processo di revisione del trattamento prudenziale esistente per il rischio sovrano a livello internazionale e valuterà le possibili opzioni di policy. Il Comitato di Basilea sta conducendo tale revisione in modo attento, olistico e graduale, con lo scopo di valutare anche le questioni più generali collegate al ruolo dei mercati del debito sovrano, nonché l’impatto che modifiche dello schema di regolamentazione potrebbero avere su tale ruolo e su determinati segmenti di mercato. Occorre soppesare accuratamente i costi e i benefici di qualunque eventuale modifica dello schema di regolamentazione. La valutazione deve tenere conto dell’impatto potenziale della revisione sul funzionamento dei mercati e sulla stabilità finanziaria, nonché degli effetti collaterali che potrebbe avere su altre classi di attività, incidendo sulla capacità di intermediazione delle banche. Inoltre, andrebbero considerate debitamente la funzione di liquidità svolta dalle obbligazioni sovrane e le potenziali implicazioni per la trasmissione della politica monetaria”.

Al di là delle conclusioni alle quali arrivano i diversi soggetti, evidentemente diverse, ciò che conta è che la discussione sia decisamente orientata a verso una decisione che, qualunque essa sarà, provocherà un sostanziale mutamento delle consuetudini finora intercorse fra banche e stati.

Capire se sarà meglio o peggio di adesso non è facile. Però possiamo farcene un’idea.

Twitter: @maitre_a_panZer

Come si prepara il divorzio fra banche e titoli di Stato

Prosegue, con implacabile costanza, la battaglia pressoché inosservata che i regolatori hanno ingaggiato ormai da anni per arrivare a una sostanziale rivoluzione del modello che finora – e non è esagerato dirlo – ha retto in piedi le finanze pubbliche di molti stati. Ossia la prassi di molte banche commerciali di acquistare bond pubblici del proprio paese di residenza. L’ultima…

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