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Di recente si è iniziato a ragionare su un limite all’ammontare di titoli di stato emessi del paese di appartenenza che una banca può avere in portafoglio. La Commissione ha annunciato che presenterà una proposta. L’obiettivo è condivisibile: contribuire a ridurre il nesso tra debito sovrano e debito bancario, che è stato una cinghia di trasmissione della crisi nell’Eurozona negli ultimi anni.

Tuttavia, un effetto più o meno volontario potrebbe essere quello di rendere più difficile, per alcune economie e in alcune fasi storiche, il collocamento dei titoli del debito pubblico. Le banche di alcuni paesi hanno accresciuto notevolmente l’acquisto di titoli di stato, negli ultimi anni. Ciò ha fruttato loro rendimenti piuttosto elevati (per titoli, almeno inizialmente, percepiti dai mercati come più rischiosi), evitando contestualmente scenari peggiori per le finanze pubbliche. In Italia, ad esempio, le banche detengono titoli sovrani nazionali per il 10,2% delle attività nel settembre 2015, dal 5,2% a fine 2011.

Se si guarda al totale dei titoli di stato emessi nell’Eurozona, in Italia la quota è salita all’11,5% (da 6,2%) e in Spagna al 10,2% (da 5,7%). Nella fase peggiore della crisi, la domanda bancaria di titoli sovrani è stata essenziale in vari paesi. Ma, guardando ai bilanci delle banche, l’aumento della quota di tali titoli sul totale degli asset è avvenuto insieme alla riduzione della quota del credito, sebbene una relazione causale dal primo alla seconda non sia certa.

Peraltro, evitando situazioni peggiori, che avrebbero potuto materializzarsi proprio attraverso il nesso da Stato a banche, l’acquisto di titoli sovrani potrebbe aver scongiurato un crollo ancora più ampio del credito. Dunque, un tetto ai titoli sovrani avrebbe effetti incerti sui prestiti. E imporre un limite a questa quota significa ingerire nella composizione delle attività bancarie, distorcendo le scelte degli istituti.

npl

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