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Giorgio Napolitano ha quanto meno contribuito a ridurre i costi ingenti della giustizia, facendo saltare una inutile trasferta di giudici, pubblici ministeri, cancellieri e guardie di sicurezza della Corte d’Assise di Caltanissetta a Roma. Dove avrebbero voluto sentirlo come teste in qualche ambiente adatto di Palazzo Giustiniani, che ospita l’ufficio del presidente emerito della Repubblica e senatore di diritto.

A quella testimonianza, già programmata per il 14 dicembre, sulla falsariga di quella ottenuta al Quirinale l’anno scorso, quando egli era ancora capo dello Stato, dai giudici del processone ancora in corso a Palermo contro fior di politici, generali e mafiosi sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia, i giudici di Caltanissetta hanno rinunciato di fronte ad una lunga lettera di protesta di Napolitano. Una protesta che il simpatico Maurizio Crozza, ineguagliabile imitatore anche dell’ex presidente della Repubblica, definirebbe “vibrante”, con quell’inconfondibile cadenza partenopea dell’anziano ma ancora vigoroso senatore.

In quella lettera scritta alla Corte, alle prese con la quarta e probabilmente neppure ultima ricerca processuale della verità e dei responsabili della strage compiuta il 19 luglio 1992 in via D’Amelio, a Palermo, dove furono sterminati il magistrato Paolo Borsellino e la scorta, Napolitano non aveva solo lamentato l’inutilità di una sua testimonianza, dopo quella già resa sugli stessi temi ai giudici del processo palermitano. Egli aveva anche denunciato “la sorprendente e inesplicabile” pretesa di ascoltarlo. Nonché “la sconfinata comprensività e assurda vaghezza” delle questioni poste dalla difesa del fratello di Borsellino, Salvatore, per reclamare una testimonianza dell’ex capo dello Stato su quello che i giudici, accettandone inizialmente l’istanza, hanno definito “il contesto sociale e politico” in cui erano maturate nel 1992 le stragi, compresa quella di via D’Amelio, e le presunte trattative, tanto contrastate da Paolo Borsellino da essere ammazzato pure lui.

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Appartengono al cosiddetto contesto politico del 1992 le iniziative e la stessa formazione del primo governo del socialista Giuliano Amato, dove l’accusa sospetta che l’avvicendamento al Ministero dell’Interno fra i democristiani Enzo Scotti e Nicola Mancino, finito – guarda caso – a Palermo fra gli imputati per falsa testimonianza, fosse stato funzionale proprio alla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia.

In quel tragico 1992 Napolitano era presidente della Camera, esponente peraltro di un partito allora d’opposizione, per cui non aveva titolo per intervenire nella formazione e negli affari di governo. Cosa che adesso gli ha permesso, dissentendo dalla chiamata a testimoniare, di bacchettare istituzionalmente magistrati e avvocati lamentandone di fatto “una certa approssimazione, se non ignoranza, delle distinzioni di ruoli tra poteri dello Stato”.

Non meno pertinente e urticante è stato il richiamo di Napolitano, già presidente anche del Consiglio Superiore della Magistratura, al dovere di chi amministra giustizia “in nome del popolo italiano” di evitare inutili, anzi dannose sovrapposizioni, nel migliore dei casi, o di contraddizioni, nel peggiore. Questo significa il richiamo, testuale, alla necessaria “concentrazione delle energie processuali, non la loro dispersione”, com’è avvenuto a livello d’indagini sullo stessa tema fra varie Procure, e a livello di giudizio fra Palermo e Caltanisetta.

Ciò ha già procurato a Napolitano critiche e attacchi, accusato dal solito Fatto Quotidiano, per esempio, di avere “sconfitto la Giustizia”, ma – vivaddio – era ora che qualcuno dell’esperienza e della provenienza politica del presidente emerito della Repubblica parlasse così forte e così chiaro, più ancora di quanto non avesse potuto o voluto fare al Quirinale.

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Va riconosciuto a questo punto al presidente della Corte d’Assise di Caltanisetta, Antonio Balsamo, il merito, se non addirittura il coraggio, di avere “assecondato” Napolitano, come gli hanno rimproverato sul Fatto, sino a rimangiarsi la decisione di convocarlo come teste.

Il realismo e il buon senso di Balsamo avrà deluso gli appassionati dei processi spettacolari o rumorosi, affollati necessariamente di imputati e testimoni eccellenti, ma gli ha risparmiato il rischio di diventare inconsapevolmente emulo di quel micidiale e sfortunato esoterista  che  fu nel Settecento Cagliostro, di cognome Balsamo come lui, definito forse con troppa indulgenza “un briccone” da Goethe.

Elogio di un vibrante Napolitano

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