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Se, come dichiara il dipartimento di Stato, l’inviato speciale degli Stati Uniti per lo Yemen, Tim Lenderking, arriverà nei prossimi giorni Arabia Saudita e Oman per discutere della necessità di una cessazione immediata degli attacchi Houthi nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden, allora è possibile che abbia qualcosa da offrire nella mediazione pragmatica che soprattutto gli attori locali hanno in mente di condurre con il gruppo armato yemenita — che ha messo a ferro e fuoco l’Indo Mediterraneo, dopo aver conquistato mezzo Paese durante questo decennio di guerra civile.

Lenderking incontrerà le controparti regionali e discuterà i passi da compiere per smorzare la situazione attuale e “rinnovare l’attenzione per garantire una pace duratura per il popolo yemenita”. È un successo della campagna muscolare che gli Houthi stanno conducendo con le armi iraniane? Chissà… Gli yemeniti hanno sempre detto di agire come dimostrazione di solidarietà con i palestinesi di Gaza assediati da Israele, ma in realtà il loro obiettivo riguarda la stabilizzazione degli equilibri di potere nel Paese.

Il dipartimento di Stato ha dichiarato che gli attacchi degli Houthi stanno minando i progressi del processo di pace in Yemen e la fornitura di aiuti umanitari al Paese e ad altri scenari in difficoltà (si parla delle varie crisi nel Corno d’Africa, non tanto di Gaza). “Gli Stati Uniti restano fermamente impegnati a sostenere una pace duratura nello Yemen e ad alleviare la complessa crisi umanitaria ed economica che colpisce il popolo yemenita”, dice State, aggiungendo che Washington sostiene il ritorno agli sforzi di pace guidati dalle Nazioni Unite una volta che gli Houthi cesseranno i loro “attacchi indiscriminati”.

Al di là delle dichiarazioni, che Lenderking si nuova significa che Washington vuole andare a vedere di persone innanzitutto le carte saudite. A Riad c’è divisione tra una visione pragmatico-diplomatica e un rigurgito guerresco (minoritario) che vorrebbe tornare all’attacco contro gli Houthi, rompendo un cessate il fuoco in piedi da molti mesi, e con l’occasione sfruttare un potenziale ampio sostegno internazionale per regolare i conti con gli ex ribelli, i quali attualmente controllano del territorio sottratto al governo regolare di Sanaa, che a sua volta ha ricevuto sostengono militare (senza successo) da Riad. E, è giusto aggiungere, da un gruppo di Paesi arabi sunniti che hanno cavalcato la guerra civile yemenita come uno dei campi di battaglia in cui sfogare, per procura, l’ostilità con l’Iran — che a sua volta aveva sfruttato la guerra civile yemenita per usare i legami con gli Houthi e renderla uno pseudo-proxy contro i nemici sauditi.

Questa dinamiche è stata per buona parte obliterata dalla riapertura delle relazioni diplomatiche tra Riad e Teheran, siglata a Pechino nel marzo del 2023. Da quel momento gli equilibri regionali sono cambiati, e per l’Arabia Saudita si è concretizzata l’occasione di sfruttare i nuovi rapporti con l’Iran per mettere fine alla guerra in Yemen — un impegno militare imbarazzante (GP) e non in linea con l’attuale fase del nuovo corso del potere nel regno, più orientato a stabilità pragmatica e business. Da lì la visione pragmatico-diplomatica ha preso piede anche per via di un cambio generale di atteggiamento sugli affari regionali e internazionali del regno e del suo factotum, l’erede al trono Mohammed bin Salman:

Gli Houthi dichiarano che non fermeranno gli attacchi alle rotte indo-mediterranee che legano Europa e Asia finché non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza propedeutico alla Soluzione a Due Stati. È un incastro troppo complesso per una gestione che richiede immediatezza: il traffico per Suez sta diminuendo e tutti i Paesi mediterranei — Egitto in testa — chiedono una soluzione della crisi. E pressano Washington. Lo chiedono anche le società di spedizioni mercantili internazionali, perché — tra i rischi del Mar Rosso e i costi dell’alternativa dal Capo di Buona Speranza — la geoeconomia che connette i traffici marittimi euroasiatici è destabilizzata.

Sebbene la volontà di non sospendere le attività militari contro gli Houthi, sia quelle offensive sia quella difensiva, è un presupposto chiaro di Washington, l’amministrazione Biden intende esplorare anche alternative diplomatiche. Anche perché i bombardamenti anglo-americani e le interdizioni difensive dell’operazione europea Aspides hanno eroso le capacità operative dei ribelli yemeniti, ma non le hanno bloccate. E la Casa Bianca sa che in questo periodo storico, le attività militari vanno ridotte ai minimi, pena lo scontento dei contribuenti — non buono nell’anno elettorale.

Gli Usa, tramite l’Oman, hanno anche cercato un ingaggio diplomatico con l’Iran. Ma i contatti tramite il background channel raccontano che nemmeno i Pasdaran hanno controllo totale degli Houthi (o almeno questo lasciano intendere). Pure Russia e Cina hanno cercato un accordo con gli yemeniti (nell’ottica di quel modello pragmatico di governance con cui vorrebbero gestire l’ordine internazionale, contro il peso valoriale dell’ordine basato sulle regole dettato dalle democrazie). E però anche questo tentativo è finito senza successo, con una nave cinese vittima di cinque missili balistici a pochi giorni dalle notizie su quell’intesa.

Forse i sauditi hanno qualcosa in più da offrire in questa situazione, e gli americani vogliono valutare le opportunità — oppure capire quanto spazio c’è per un’azione militare più ampia, che sconfigga gli Houthi e però non rappresenti un’escalation regionale (molto improbabile). Oggi in Arabia Saudita doveva esserci anche Jake Sullivan, capo del Consiglio per la sicurezza nazionale statunitense: doveva parlare di normalizzazione con Israele, tema altamente sensibili per Riad (visto anche il contorno yemenita) che ha un estremo valore strategico. Ma Sullivan si è rotto una costola, e le nuove discussioni sono stare rimandante.

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