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Ciò che colpisce di più, e personalmente mi indigna, delle polemiche scatenate dal libro di Mattia Feltri sul “Novantatre, l’anno terribile di Mani Pulite” è la perdurante difficoltà di parlare di quella stagione col distacco che pure dovrebbe imporre il tanto tempo trascorso dai fatti.

Pierluigi Magnaschi, il direttore di Italia Oggi che ha giustamente apprezzato la rievocazione critica del 1993, è stato troppo ottimista a scrivere che “il polverone è scomparso e le passioni si sono attenuate”. Magari le cose stessero così, e questo Paese fosse perciò normale. Sono passati ben 23 anni ma il polverone rimane. La tanta polvere sollevata da Tangentopoli e dalle relative inchieste giudiziarie non si è ancora depositata del tutto, e tanto meno rimossa, se Mattia Feltri è stato sculacciato, diciamo così, dal padre Vittorio. Che non ha gradito, fra l’altro, di essere stato citato fra i giornalisti andati troppo a rimorchio dei magistrati inquirenti.

Eppure, con una franchezza che trovai apprezzabile, pur non condividendone la scelta professionale compiuta in quella stagione, proprio Vittorio Feltri confessò qualche anno, se non addirittura qualche mese fa, di avere cavalcato le gesta dell’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro, contribuendo a portarlo, come ha ammesso anche nella polemica con il figlio, “da oscuro manovale del diritto sul piedistallo degli eroi”, per aumentare la tiratura e le vendite del giornale che dirigeva, l’Indipendente. E che lui aveva ereditato in condizioni disastrose, sulla strada – disse – del cimitero. Per salvare e rivitalizzare una testata moribonda egli avrebbe fatto di tutto.

 

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Non mi sembra francamente giusto pagare per il salvataggio di un giornale, gonfiandone le vele col vento di Mani pulite, il prezzo di “assecondare – parole dello stesso Vittorio Feltri nella polemica professionalmente un po’ suicida col figlio – un sistema investigativo pressappochista e dozzinale”, tuttavia “comprensibile, dato il momento”.

Peraltro, anche il salvataggio dell’Indipendente era destinato a rivelarsi effimero, visto che poi scomparve lo stesso dalle edicole. Nel frattempo l'”eroe” Di Pietro aveva investito in politica il credito popolare guadagnatosi come magistrato. Investimento legittimo, per carità, cioè consentito dalla legge, ma contrastante con un impegno di senso opposto assunto dallo stesso Di Pietro con i lettori della Stampa avviando una sua collaborazione editoriale dopo l’improvvisa dismissione della toga.

 

Lo stesso Vittorio Feltri, d’altronde, una volta assunta la direzione del Giornale dopo la rottura fra l’editore Silvio Berlusconi, anche lui lasciatosi tentare dalla politica, e il fondatore Indro Montanelli, fece le pulci all’evidentemente ex eroe di Mani pulite, procurandosi una sfilza costosissima di querele. Che sfociarono in una improvvisa riconciliazione fra lo stupore e le proteste dell’amico Giuliano Ferrara, proprio in quel momento – nel 1996 – impegnato in una dura campagna elettorale, come candidato del centrodestra,  per l’assegnazione del rossissimo seggio collegio senatoriale del Mugello offerto a Di Pietro dall’allora segretario dell’ex Pci Massimo D’Alema. Che ne aveva già accettato la nomina a ministro dei Lavori pubblici, decisa da Romano Prodi accogliendo una intuizione o consiglio di una nipote. Nipote non dell’ormai ex magistrato, sia chiaro, ma di Prodi.

La singolare straordinarietà delle intuizioni del professore emiliano, e familiari, è notissima. Basterà ricordare la famosa seduta spiritica dell’aprile 1978 raccontata dallo stesso Prodi a inquirenti giudiziari e parlamentari per spiegare quel nome Gradoli da lui fatto alla segreteria della Dc per cercare di venire a capo del sequestro ancora in corso del povero Aldo Moro.

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C’è chi – il solito Marco Travaglio sul Fatto – ha visto e indicato nel libro di Mattia Feltri, per quanto ricavato in gran parte da articoli scritti e pubblicati sul Foglio molti anni fa, e nelle recensioni favorevoli una manovra, o qualcosa di simile, per “riabilitare i ladri di ieri e legittimare quelli di oggi”. Ma non è finita. Lo scopo è anche, o soprattutto, quello di “intimidire i pochi magistrati e giornalisti”, a cominciare naturalmente dallo stesso Travaglio, “rimasti con la voglia di aprire gli armadi del potere”. E mettere fuori gioco con il combinato disposto d’indagini giudiziarie e processi mediatici il potente di turno: Bettino Craxi 23 anni fa, poi Silvio Berlusconi e ora Matteo Renzi, appena raggiunto da un nuovo super elogio di Giuliano Ferrara. Che per i vecchi e i nuovi ghigliottinari può essere la prova regina nel processo mediatico già avviato contro il presidente del Consiglio, nella speranza che ne segua prima o poi uno giudiziario, con i solidi armadi delle Procure da saccheggiare con l’aiuto dei custodi.

Il polverone del ’93, per tornare all’immagine di Magnaschi, non può scomparire o diradarsi perché si è in qualche modo consolidato con quelli successivi.

 

Rosanna Lambertucci e Vittorio Feltri

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