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Quando ha attaccato la quasi coetanea ministra Maria Elena Boschi, reclamandone una sfiducia destinata ad essere negata, al deputato grillino Alessandro Di Battista è mancato solo lo sventolio di un cappio. Sarebbe stata la replica anche fisica di quell’osceno spettacolo offerto in quella stessa aula, a Montecitorio, il 16 marzo 1993 dal deputato leghista Luca Leoni Orsenigo. Che chiese la forca, appunto, per tutti quei politici dell’odiata e già morente Prima Repubblica già indagati per Tangentopoli, o in procinto di esserlo. Molti dei quali peraltro sarebbero stati assolti, o addirittura neppure rinviati a giudizio. E’ la giustizia di rito italiano, da qualcuno considerata, al pari della Costituzione, come “la più bella del mondo”.

Per fortuna, forse grazie alla sua laurea in discipline della musica e dello spettacolo, e a un master di secondo livello in tutela internazionale dei diritti umani, Di Battista si è limitato ad esagerare solo nel linguaggio contro la malcapitata ministra toscana. Che a causa del padre, già vice presidente dell’istituto di credito Etruria, di un fratello già dirigente, di una cognata ancora dipendente e di un pugnetto personale di 1500 azioni andato quasi in fumo, dovrebbe sentirsi in un conflitto d’interessi “grande come una banca”, dopo il salvataggio disposto dal governo con altri sportelli similari.

Né il babbo della Boschi, per quanto già multato con altri ex amministratori dalla vigilanza e rimosso con il commissariamento della banca, né il fratello né la cognata sono indagati, o non ancora, come precisano quanti non vedono l’ora, non solo fra i grillini, di sentirne e amplificarne l’annuncio. Ma il fatto stesso che siano vivi basta e avanza agli oppositori del governo per sentirsene infastiditi o addirittura offesi, e trattare come impresentabile e sfacciata la loro congiunta. O auspicare, come ha fatto sarcasticamente Di Battista alla fine del suo infuocato discorso, che la ministra venga cinicamente e tempestivamente “scaricata” dal suo pigmalione politico, cioè il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che era intanto a Bruxelles a dirne quattro, berlusconianamente, alla cancelliera tedesca Angela Merkel, convinta di essersi dissanguata per aiutare l’Europa.

(BACI E ABBRACCI FRA DI BATTISTA, RODOTA’ E FLORES D’ARCAIS. FOTO DI PIZZI)

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Cappio o non cappio, l’imbarbarimento del dibattito politico e parlamentare, anche quando si traveste da comicità, come sa fare Beppe Grillo nelle piazze, fisiche ed elettroniche, è sempre qualcosa da temere e deplorare. Si è invece presa da noi la brutta abitudine di riderci sopra, o fare spallucce.

Lo stesso cappio leghista del 1993, anticipatore di quello metaforico dei grillini in questa incipiente terza Repubblica, si guadagnò allora titoloni e foto sulle prime pagine ma niente di più. I leghisti, oggi sorpassati in tutti i sensi dai grillini e paghi solo di avere a loro volta sorpassato con Matteo Salvini ciò che resta di Forza Italia, continuarono a crescere. E dopo poco più di un anno da quell’orribile 16 marzo sarebbero stati addirittura portati al governo da Silvio Berlusconi, salvo disarcionarlo rapidamente da Palazzo Chigi dandogli del Berluscaz, del piduista, del mafioso e via dileggiando. Poi, in verità, sarebbero tornati ad allearsi con lui, ma solo per logorarlo più lentamente, e più proficuamente per loro.

Persino un politico per certi versi così aristocratico, per quanto di vecchia militanza comunista, come l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano trangugiò quel cappio con labili proteste: tanto labili da non lasciarne traccia nelle duecento, pur pregevoli pagine del libro evocativo dei due tumultuosi anni trascorsi al vertice di Montecitorio. Fu pubblicato da Rizzoli nell’autunno del 1994 con questo titolo: “Dove va la Repubblica? 1992/1994 -Una transizione incompiuta”. Davvero incompiuta, ancora oggi, dopo che al Quirinale si sono avvicendati ben quattro capi di Stato, il più longevo dei quali è stato proprio “Re Giorgio”, eletto nel 2006 e – per la prima volta nella quasi settantennale storia repubblicana – rieletto nel 2013 per un secondo mandato, interrotto solo dalla stanchezza.

(LE ULTIME SORTITE DI BRUNETTA VISTE DA UMBERTO PIZZI. LE FOTO)

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Eppure c’è qualcosa che, del processo politico fatto alla Camera contro la ministra Boschi senza lo straccio di un motivo o pretesto giudiziario, mi ha personalmente colpito più ancora del discorso da cappio, per la truculenza delle parole e dei concetti, pronunciato dal grillino Di Battista.

È lo spettacolo dell’uscita dall’aula offerto dai deputati di Forza Italia, che stento a credere sia stato davvero ordinato personalmente da Berlusconi, sia pure in alternativa ad uno ancora peggiore – il voto di sfiducia “individuale” alla ministra Boschi – reclamato dagli “alleati” leghisti ed ex missini. Che indossano ora i non tanto metaforici stivali della sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: così giovane, neppure 39 anni compiuti, e incredibilmente già vice presidente della Camera e ministra di Berlusconi. Una che non si ferma mai per chiedersi romanescamente che cosa stia a di’.

(LE PASSIONI NON SOLO POLITICHE DI GIORGIA MELONI)

Scorgo ombre di cappi a 5 stelle

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