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L’espansione dello Stato Islamico in Libia sembra essere arrivata a un punto di stallo. Non solo sul piano militare, ma soprattutto nel gioco delle alleanze con le altre formazioni islamiche. Si potrebbe dire che il Califfato gioca da solo contro tutti. In Libia i gruppi insurrezionalisti di un certo peso sono almeno quattro, a cui vanno aggiunte molte formazioni più piccole, spesso unite da un collante tribale o da specifici interessi regionali. A confermare questa battuta di arresto è una lunga intervista pubblicata sull’ultimo numero di Dabiq, il foglio ufficiale del Califfato, dove il responsabile del gruppo in Libia, Abul Mughirah al-Qahtani, illustra la situazione sul terreno, ma soprattutto elenca quelli che vengono considerati i nemici da combattere, e non sono pochi.

L’avversario più temibile è Ansar al Sharia, un gruppo jihadista balzato agli onori delle cronache occidentali l’11 settembre del 2012, quando attacca con quasi 200 uomini la sede diplomatica americana a Bengasi uccidendo l’ambasciatore Christopher Stevens e tenendo sotto il fuoco per diverse ore il compound della Cia che dista meno di due chilometri dalla residenza. “Alcuni leader e partigiani di Ansar al-Sharia – dice Qahtani – sono stati i primi in Libia a professare obbedienza (ba’yat) al Califfato, questo dimostra che molti militanti vorrebbero applicare la Sharia così come viene predicata dallo Stato Islamico, ma evidentemente tutti gli altri preferiscono le divisioni all’unità, visto che tale organizzazione non ha mai voluto professare obbedienza [al Califfato], anzi ha stretto un’alleanza con altri movimenti rivoluzionari legati al regime apostata di Tripoli, così come in altre regioni si accontenta di ricevere soldi sporchi”.

In questo caso Qahtani bolla con tono di disprezzo i legami di alcuni leader di Ansar al-Sharia con al-Qaeda in Islamic Maghreb (AQIM), una formazione qaedista attiva da molti anni nella fascia del Sahel che finanzierebbe le sue attività con il contrabbando di sigarette, di armi e di migranti. La ferita che brucia di più è la cacciata dei miliziani dell’Isis da Derna, nella Libia Orientale, che viene conquistata nell’ottobre del 2014 spostando miliziani da altri fronti. In questa località l’Isis insedia una Corte islamica che ha giurisdizione su tutto, crea un corpo di polizia per far rispettare i precetti della Sharia e tenta di costruire strutture sociali in grado di soddisfare i bisogni più elementari della popolazione. Derna diventa una roccaforte del Califfato con forti valori simbolici: provengono da qui buona parte degli attentatori suicidi che verranno impiegati in Iraq, dopo l’invasione americana del 2003, ma anche molti reparti che poi parteciperanno alla guerra civile in Siria.

Ma a Derna operano altre formazioni jihadiste, come la Brigata Abu Salim e il Gruppo islamico di combattimento libico (LIFG) già attivo durante la rivolta contro il regime di Saddam Hussein. Queste due sigle, a cui si aggiungono altre formazioni fra cui Ansar al-Sharia, daranno vita al Consiglio dei Mujaheddin (MSC) con cui scoppiano delle frizioni. C’è qualche confronto isolato con gli uomini del Califfato ma nel giugno di quest’anno si arriva allo scontro diretto. Qahtani offre una lunga spiegazione dei motivi di dissidio con le altre formazioni jihadiste presenti in città, ma indirettamente fornisce molti particolari utili a chiarire il modus operandi dello Stato Islamico in Libia: “la Corte [del Califfato] ha stabilito che la Brigata Abu Salim si è macchiata di apostasia e ha chiesto ai suoi aderenti di professare pubblicamente un atto di pentimento”.

Sarebbe questo il casus belli che poi porta allo scontro diretto. Conferma anche che i miliziani dello Stato Islamico “si sono ritirati dal centro della città per spostarsi nella periferia orientale di Derna, dove rinforzare le loro difese e passare al contrattacco” (ma senza apprezzabili risultati secondo molti osservatori). In concreto lo Stato Islamico oggi ha contro tutte le altre formazioni insurrezionaliste in Libia, anche a Sirte di cui mantiene il controllo ma dove vengono segnalati scontri con alcune forze salafite o a Misurata dove combatte con alterne fortune una coalizione di milizie filoislamiche. La lunga intervista a Qahtani porta a due conclusioni di carattere più generale: la prima è che l’insistenza quasi ossessiva sul ba’yat (l’atto di obbedienza) preclude allo Stato Islamico qualsiasi forma di alleanza, mentre altre formazioni jihadiste che combattono il Califfato sono più propense al compromesso se è possibile trarne un vantaggio: ad esempio nel Consiglio dei Mujaheddin di Derna convivono molte anime, anche se presumibilmente a fatica.

La seconda è che lo Stato Islamico è succube ancora oggi di una forma di avversione nei confronti di formazioni qaediste, un aspetto a prima vista paradossale perché lo Stato Islamico nasce da quel che rimane di al-Qaeda in Iraq dopo l’eliminazione del suo fondatore Abu Musab al-Zarqawi. Ovviamente il ginepraio libico è molto più complicato rispetto all’insurrezione sunnita in Iraq, dove è abbastanza probabile che le fortune dello Stato Islamico debbano molto al determinante contributo di pezzi di stato dell’era di Saddam Hussein (alte gerarchie militari cadute in disgrazia dopo l’intervento americano e soprattutto i servizi segreti del raìs che probabilmente hanno mantenuto qualche canale aperto a Baghdad). Sul piano militare i colpi di mano dell’Isis in Libia possono generare clamore, ma in qualche caso vanno saputi interpretare. Ad esempio il 18 settembre sei militanti attaccano un carcere di massima sicurezza nell’aeroporto di Mitiga, nei pressi di Tripoli, facendo tre vittime fra i secondini.

L’attacco viene respinto dalla Forza di deterrenza libica che uccide tutti gli uomini del commando. La si può considerare un’operazione fallita ma c’è qualcosa di più. Uno degli atti costitutivi dello Stato Islamico è secondo molti storici dell’insurrezionalismo la campagna “Breaking the Walls” quando nel luglio del 2013 due colonne di miliziani attaccano le prigioni di Taji e di Abu Ghraib, aprendosi la strada con degli attentati suicidi, e liberando complessivamente quasi 500 prigionieri, molti dei quali sono comandanti con una lunga esperienza sul campo. L’aspetto simbolico è tenuto in altissima considerazione dai pianificatori militari dello Stato Islamico: non è una semplice dimostrazione di forza, ma un segno dell’ineluttabile vittoria. L’azione contro il carcere libico, semmai e visti gli esiti, potrebbe essere un segno di debolezza.

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