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La minoranza del Partito Democratico, o quel che ancora ne resta, ha smesso di cantare vittoria, se mai l’ha davvero cantata, per il compromesso sulla riforma del Senato raggiunto con le delegate di Matteo Renzi. Che sono la ministra Maria Elena Boschi e la “zietta” Anna Finocchiaro, come la stessa presidente ex dalemiana della Commissione competente di Palazzo Madama si definisce ironicamente parlando dei rapporti con la giovane esponente del governo.

“Per il momento l’argomento è chiuso”, risponde Vannino Chiti, il più esperto della materia nella minoranza del Pd, a chi gli chiede lumi sugli aspetti più controversi e ambigui del compromesso. E’ temporaneamente chiuso – ha detto, in particolare, al Manifesto – il problema di come conciliare il fatto che ad eleggere i nuovi senatori siano i Consigli Regionali ma che questi debbano “conformarsi alle scelte degli elettori” degli stessi Consigli.

E’ temporaneamente chiuso anche il problema di consegnare agli elettori dei Consigli Regionali  una o due schede, per una o due liste, in cui scegliere i consiglieri e nel contempo quelli destinati a fare pure i senatori.

E’ temporaneamente chiusa la questione dei 21 sindaci che dovranno far parte del nuovo Senato, ma che gli elettori non potranno trovare in lista perché non sono fra i candidati ai Consigli delle rispettive regioni.

Lo scioglimento di questi ed altri nodi ancora è stato rinviato alla legge elettorale “quadro”, come l’ha chiamata Chiti, che in poco più di un anno seguirà alla riforma del Senato, dopo le approvazioni parlamentare e referendaria, e che a sua volta dovrà essere seguita dall’”adeguamento” delle leggi elettorali o statuti regionali.

Di certo rimane solo che la partita è chiusa “per il momento”. Ma in attesa più della legge elettorale ordinaria o del referendum che dovrà precederla per confermarne l’approvazione parlamentare? Comincia infatti a serpeggiare il dubbio che la minoranza del Pd, incapace di sommare i propri voti alle opposizioni nelle aule parlamentari per non correre il rischio dell’espulsione dal partito, o non doverne trarre dignitosamente le conseguenze con una scissione, scommetta sul referendum per vedere bocciato Renzi. Dal quale il giurista Gian Luigi Pellegrino ha impietosamente rimproverato Bersani e compagni, dalle colonne del Fattodi essersi lasciati “fregare”, finendo “nel taschino” del presidente del Consiglio.

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Se l’obbiettivo dei dissidenti fosse diventato veramente quello di  una rivincita referendaria, torneremmo indietro di anni, essendo disseminata di simili operazioni la storia della Repubblica.

Cominciarono i democristiani nel 1974, perdendo però  la prova contro la legge sul divorzio, voluta dagli alleati socialisti e passata in Parlamento nonostante l’opposizione dello scudo crociato, e naturalmente della Chiesa. Li seguirono undici anni dopo, nel 1985, i comunisti perdendo clamorosamente il referendum contro i tagli antinflazionistici apportati alla scala mobile dei salari dal governo guidato da Bettino Craxi. Che negli ultimi giorni della campagna referendaria, quando si accorse che la segreteria della pur alleata Dc gli remava contro, scommettendo sulla bocciatura dei tagli, avvertì che si sarebbe dimesso “un minuto dopo”. Egli scommise così sul consenso degli elettori. E i fatti gli diedero ragione.

Anche a Renzi piace scommettere più sugli elettori che sui gruppi parlamentari, della sua maggioranza o delle opposizioni inclini, spesso solo a parole, a dargli una mano. Piace scommettere a Renzi come anche al suo collega greco Alexis Tsipras, della cui vittoria il segretario del Pd si è giustamente compiaciuto ricordando allo sconfitto Yanis Varoufakis e compagni che “chi di scissione ferisce, di elezioni perisce”. Di scissione, o anche di boicottaggio e di dissenso esasperato.

D’altronde, Renzi già si sente in campagna referendaria sulla riforma del Senato, vista la frequenza con la quale parla di quella scadenza con l’aria di chi è convinto, forse non a torto, di poterla vincere, per quanto pasticciata già risulti. Molti, a torto o a ragione, dopo anni di inutile attesa preferiscono cambiare comunque, piuttosto che rimanere immobili.

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Qualche parola sullo sconto offerto al governo dal vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli: la rinuncia a 2 milioni degli 85 e rotti di emendamenti algoritmi alla riforma. Ma, più che una parola, una domanda. Siamo ancora al Senato o ad una puntata straordinaria di Scherzi a parte?

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