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La vicenda del cambio al vertice di Cassa depositi e prestiti ha avuto il pregio di riportare all’attenzione del pubblico il concetto di ‘politica industriale’. La mancanza di questo tema dal dibattito nazionale mi preoccupa, perché faccio fatica a capire come un Paese moderno come il nostro possa fare a meno di una programmazione del settore di lungo respiro e, soprattutto, ambiziosa, cioè all’altezza del nostro passato, anche recente.

Grazie alla disponibilità di Formiche.net ho cercato con l’intervento “Saipem, futuro con o senza Eni?” di contribuire ad approfondire questi aspetti che paiono anche in controtendenza con l’esigenza da me appena sottolineata di avere una lungimirante politica industriale nazionale.

Il ragionamento – in sintesi – che Eni non trarrebbe nessun vantaggio dal deconsolidamento della sua posizione in Saipem, è sostenuto dal fatto che il debito di Saipem è garantito proprio da Eni. Anche vendendo l’azienda oil&gas nazionale non deconsoliderebbe il debito: a che scopo dovrebbe disimpegnarsi, quindi? Per incassare due miliardi, una cifra che appare modesta visto che Saipem potrebbe pagare sei/settecento milioni di dividendi all’anno di cui gran parte di competenza Eni?

In merito al secondo punto, ritengo che una lungimirante politica industriale nazionale dovrebbe partire da un allargamento del dibattito democratico su quali siano e cosa vogliamo fare delle aziende strategiche del sistema paese. A mio parere, per costruire una politica industriale nazionale efficace serve un intervento di rafforzamento di queste aziende e non un ‘disimpegno’. Solo per fare alcuni nomi fondamentali, la galassia Eni, Finmeccanica, Rai e anche, ahimè, Telecom, potrebbero essere i pilastri di questa nuova politica, se lo Stato intervenisse per ‘aggiustare’ i parametri finanziari; e occorre che a fianco alla finanza – sempre da parte di un governo un indirizzo politico – si agisca dando un mandato chiaro e trasparente al management di qualsiasi azienda strategica pubblica perché operi contribuendo a costruire la nuova politica industriale del nostro Paese.

Una base di partenza sarebbe il ruolo della Cassa depositi e Prestiti che, senza tornare all’idea della partecipazioni statali – diventi lo strumento per agganciare la ripresa e trasformarla in uno sviluppo solido. Aggiungerei che, soprattutto, questo mandato politico al management – chiunque sia e qualunque cv abbia – finalmente dovrebbe essere chiaro e indirizzato a impostare una politica industriale che faccia lavorare il sistema italiano, in particolare quello dei beni e servizi industriali che spesso rappresentano delle eccellenze a livello mondiale.

Una politica e un azione aziendale legata solo al mantra dell’efficienza dei parametri finanziari – in un momento di difficoltà del nostro Paese – forse ha senso solo se ci si mette dalla parte di un amministratore delegato o di un potente advisor a cui si chieda esclusivamente di migliorare la performance del titolo azionario in borsa in cambio di un significativo bonus. Non dimentichiamoci che la politica senza la finanza è zoppa, ma la finanza senza la politica è cieca!

La domanda per mettere in dubbio questa visione potrebbe essere «E se i fondi americani o cinesi osservano?» «Bene, ce ne faremo una ragione… Perché noi siamo l’Italia!» è la risposta. Un aneddoto su quest’ultimo punto mi viene dal tempo in cui ero un giovane della generazione Erasmus, nel suo inizio: un amico francese conosciuto proprio grazie all’utopia europea negli anni 90, e, che lavora proprio nel settore energia, mi racconta sempre che le loro gare per gli appalti ai fornitori sono “indirizzate” ai ” francesi”.

Perché non dovremmo fare anche noi così?

tim

Saipem e Cassa depositi e prestiti, urge politica industriale

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