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Al dibattito sul futuro dell’Eurozona, e della stessa Unione Europea (molto intenso in questi giorni) manca un tassello: il perché l’UE va in controtendenza rispetto al resto del mondo non solo e non tanto in termini di crescita (da 15 anni l’Europa ristagna in un’economia internazionale che cresce) ma soprattutto in termini di divergenza incrementale tra i Paesi e le sub-aree economiche che ne fanno parte.

L’ultimo rapporto mensile della Banca centrale europea (Bce), diramato giovedì 30 luglio, è a riguardo eloquente: le differenze tra Pil pro-capite tra Paese e sub-aree calcolate in euro sono aumentate da quando nel 1999 è stata introdotta la moneta unica. La Spagna ed il Portogallo, considerati “a basso reddito” alla nascita dell’euro, lo sono ancora di più rispetto al reddito medio dell’Eurozona. Note a tutti le vicende della Grecia. Meno noto – e il Governo dovrebbe rifletterci – che l’Italia classificata nel 1999 tra i Paesi ‘a alto reddito medio’ (rispetto alla media UE) è ora nella classe di quelli “a basso reddito medio”, una vera svolta di cui non credo si debba essere orgogliosi.

L’integrazione economica internazionale, ed a maggior ragione quella regionale come l’UE e l’Eurozona, è una leva non solo per uscire dalla povertà assoluta (la Banca mondiale ed il Fmi affermano che negli ultimi 20 anni ha tirato fuori dalla miseria due milioni di persone, principalmente in Asia ed in America Latina) ma anche per ridurre le differenze all’interno dei singoli Paesi. Questa è la conclusione di un’analisi empirica su 60 Paesi (per i quali esistono dati dettagliati sulla distribuzione dei redditi) condotta da quattro economisti, Lei Zhou (MacroSys, LLC), Basudeb Biswas, (Utah State University), Tyler Bowles (Utah State University) e Peter J. Saunders (Central Washington University) e pubblicata alcuni anni fa sul Global Economy Journal.

Lo studio rappresenta una pietra miliare su un tema che ha diviso economisti per decenni. I quattro autori ricordano, in premessa che, sotto il profilo teorico, si può sostenere con argomentazioni parimenti cogenti che la globalizzazione aumenta sia la convergenza sia la divergenza tanto tra Paesi quanto all’interno dei singoli Paesi. Due Premi Nobel dell’Economia, Gunnard Myrdal e Paul Krugman hanno sposato la seconda tesi sulla base di teoremi ineccepibili sotto il profilo della logica matematica.

Studi precedenti, quali quelli effettuati dalle Nazioni Unite nell’ambito del rapporto annuale sullo sviluppo umano e quelli di A.T. Kerney tra il 2000 ed il 2004, venivano criticati in quanto non sufficientemente “robusti” sotto il profilo tecnico-statistico: gli indici di globalizzazione e di distribuzione del reddito erano piuttosto grezzi, il campione di Paesi limitato, l’arco di tempo contenuto.

Il lavoro di Zhou, Biswas, Bowles e Saunders ha il pregio di coprire Paesi, sia ad alto reddito sia emergenti sia poveri, per un arco di 50 anni e di utilizzare sia un “indice di globalizzazione” molto ricco sia un “indice di distribuzione del reddito” (il “coefficiente di Gini”, dal nome dello statistico italiano Corrado Gini) applicato in tutto il mondo.

Il saggio è stato scritto per lettori provetti in statistica applicata. Scorrendo le tabelle è interessante vedere come man mano dagli Anni Cinquanta al 1999 l’indice di globalizzazione applicato all’Italia aumenta, così diminuiscono le differenze di reddito tra le varie fasce di famiglie. Lo stesso fenomeno si osserva per tutti gli altri Paesi censiti, dall’Argentina al Pakistan. Ciò vuol dire che le tendenze protezionistiche in atto possono fare danno in materia non soltanto di crescita ma anche di equità.

L’analisi riguarda differenze di reddito tra famiglie non tra territori. Uno studio dell’UE a 15 alla fine degli Anni Novanta dimostrava che l’integrazione europea aveva sino ad allora trainato verso la convergenza di maggior benessere tutte le aree in ritardo con l’eccezione del nostro Sud e della Sicilia. Da allora la situazione è cambiata. La spiegazione risiede nelle migrazioni dal Mezzogiorno e nei trasferimenti alle famiglie sotto forma principalmente di pensioni e di rimesse da congiunti che lavorano altrove. Quindi sarebbe un errore stare con le braccia conserte in attesa che l’integrazione economica traini il Sud e la Sicilia.

Da queste analisi emerge un dubbio a cui danno voce economisti giovani e molto differenti – dall’australiano Steven Keen della University of Western Sidney al russo Vladimir Popov, preside di economia aziendale alla Nuova Scuola Economica di Mosca: se la globalizzazione conviene sotto il profilo della crescita e dell’equità, perché accanirsi tanto nei confronti di uno dei suoi risultati (gli squilibri finanziari mondiali, specialmente tra Usa e Asia) che più ha fatto da motore a tirare mezzo miliardi persone fuori dalla povertà ed a ridurre le differenze dei redditi?

Viene, però, anche un dubbio più profondo: se l’unione monetaria è in controtendenza rispetto al resto del mondo non è il caso di chiedersi se i meccanismi del Trattato di Maastricht, e dei successivi accordi intergovernativi come il Fiscal Compact, non vadano, alla prova dei fatti, profondamente rivisitati?

Lo sapete perché l'Eurozona non cresce come il resto del mondo?

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