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Chi vi scrive non è “un romano de Roma”. Sono un “fuori sede”, un sardo migrante economico-sanitario che si è trasferito nella Capitale nel 2003 dopo un corteggiamento durato tre anni. Sono passati esattamente 15 anni dalla prima volta che sono venuto a Roma. Ebbene sì, io posso dirlo: io c’ero. C’ero al grande Giubileo del Secondo Millennio della Chiesa Cattolica e, se Dio vorrà, ci sarò anche per il Giubileo che inizierà l’8 dicembre prossimo. Rispetto 15 anni fa ho un cuore nuovo, 2 lauree in più e un lavoro. Già, il mio arrivo nella Capitale è legato alla necessità impellente di dover fare un trapianto di cuore all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. E questo spiega il lato “sanitario” del mio migrare, mentre quello economico è facilmente intuibile dall’elevata disoccupazione della mia Regione, la Sardegna, soprattutto nell’ambito giornalistico. Inutile dire che amo Roma con anima, corpo e spirito, con tutti i suoi pregi e nonostante i suoi mille difetti. Chiusa la parentesi personale sui cambiamenti della mia vita, vedrò di analizzare i cambiamenti della città Eterna degli ultimi 15 anni.

Nel 2000 in Vaticano c’era un Giovanni Paolo II già molto provato per i segni della malattia che cinque anni dopo lo avrebbe portato alla morte. In Campidoglio imperava ormai da 7 anni quel Francesco Rutelli che si preparava alla sfida contro Silvio Berlusconi, all’epoca leader dell’opposizione col vento in poppa. Per contenere i danni di una sconfitta annunciata per il centrosinistra Rutelli aveva solo di possibilità: virare drasticamente verso il centro con una lista cattolico-liberal-democratica e fare sì che il Giubileo fosse un successo. Due obiettivi che l’allora sindaco, con un passato da radicale e da ambientalista laico, centrò in pieno ma non gli bastò per vincere. Va dato atto, però, a Rutelli che il suo Giubileo non fu infangato da inchieste giudiziarie stile Expo, Mose o Mafia Capitale e gli va anche riconosciuto di aver sfornato, nel bene o nel male, buona parte dell’attuale classe dirigente. Dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni al vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, passando per Filippo Sensi, il portavoce del premier, per arrivare al premier stesso, Matteo Renzi sono tutti nati o cresciuti politicamente o dentro il Campidoglio o dentro la Margherita.

Dopo Rutelli  nel 2001 iniziò il “pontificato” di Veltroni e, quattro anni dopo, quello di Benedetto XVI in Vaticano. Mentre in Campidoglio tutto sembrava continuare a funzionare con l’ovattato buonismo tipico dell’ex ministro Beni Culturali, in Vaticano operavano silenziosamente i corvi finché non arrivarono le elezioni politiche del 2006. Ancora una volta il lider Maximo della sinistra “scippa” al rivale Veltroni la possibilità di candidarsi preferendo riproporre Romano Prodi Berlusconi e così lui, poi, si vendica inventandosi il PD, partito “a vocazione maggioritaria”.

Si arriva così alle politiche del 2008 che segnano il declino della sinistra romana. L’errore di fondo è quello di considerare Roma “proprietà della sinistra sempre e comunque” e di credere che esistano gli uomini per tutte le stagioni. Con un’operazione tipica delle più becere oligarchie comuniste la sinistra sceglie di usare Roma come pedina di scambio:il sindaco Veltroni dal Campidoglio a Palazzo Chigi e l’allora vicepremier Rutelli da Palazzo Chigi al Campidoglio (di nuovo) ma il piano fallisce. Berlusconi, con la svolta del predellino si inventa il Pdl che diventa una macchina da guerra e trascina alla vittoria anche Gianni Alemanno. Colpa di un’amministrazione Veltroni più attenta alle feste del cinema che alle periferie, dopo 15 anni di predominio assoluto, la sinistra perde. La destra si prende Roma ma lo fa a caro prezzo, dovendo pagare dazio a tutte le lobby che hanno sostenuto Alemanno.

Da qui nascono i problemi che prescindono da Mafia Capitale e che riguardano la mala gestione delle municipalizzate e ciò porta, nel 2013 alla vittoria di Ignazio Marino, il sindaco “marziano”. La sua candidatura viene portata avanti dal “padre padrone” della sinistra romana, quel Goffredo Bettini che nel ’93 si era inventato la candidatura di Rutelli e che negli ultimi 20 ha intessuto i rapporti con i costruttori romani. A Roma non si muove foglia che Bettini non voglia. E infatti il genovese Marino vince le primarie del Pd con un solo mese di campagna elettorale. Su Marino si è detto di tutto e di più e perciò è inutile soffermarsi sulle sue bugie, sulle spese pazze o sui suoi viaggi. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. È una persona perbene ma questo non basta per fare bene il sindaco se non si hanno le giuste competenze ed è soprattutto questa sua inettitudine ad averlo portato alla dimissioni.

Il Giubileo è in dirittura d’arrivo e Renzi non può permettersi una figuraccia e quindi meglio un commissariamento vero, magari affidato all’ex assessore alla legalità, Alfonso Sabella piuttosto che una situazione ibrida come la precedente. Per mesi il sindaco effettivo (cioè de facto) è stato prefetto Franco Gabrielli che Renzi vorrebbe candidare in primavera per non lasciare la città in mano alla minoranza Pd, fatta dagli uomini che hanno governato Roma negli ultimi vent’anni e per non bruciare un nome di stretta osservanza renziana come quello di Roberto Giachetti. E Marino che farà? Il sindaco migrante che migrava negli Stati Uniti per sfuggire dai problemi reali della Capitale, ora punta a diventare un “marziano stanziale” e a portare avanti la sua vendetta con una lista civica che impedisca al Pd di arrivare al ballottaggio. Da marziano a martire. È questa la svolta che Marino vuole imporre alla sua fragile figura politica. L’obiettivo è far dimenticare la sfiducia arrivata dal Papa in mondovisione puntando a diventare il capofila di “rivoluzione etica e laica” con l’appoggio di Sel e della sinistra radical chic.

A Marino consiglierei, usando una termine gergale tipicamente romano, “stacce”, assumiti le tue responsabilità e prendi atto che il sostegno di 50mila romani, firmatari della petizione che gli chiede un ripensamento, è ben poca cosa rispetto ai 3 milioni e mezzo di abitanti della Capitale. Ai romani, invece, chiedo solo un piacere: la prossima volta, sia che votiate a destra o a sinistra, votate un romano, uno che almeno sa come si arriva in Vaticano. E cioè rispettosamente, in punta di piedi. Il Papa non è un altro sindaco, è un capo di Stato di uno Stato estero, né più né meno di un Obama o di una Merkel e, credenti o no, come tale deve essere trattato.

Grazie,

Buon Giubileo a tutti e che Dio ce la mandi buona!

Lettera ai Romani e al sindaco migrante

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