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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Nel 1987 Allan Bloom scrisse un testo importantissimo, The closing of the american mind, che criticava gli eccessi del relativismo nell’educazione Usa, una teoria che eliminava il necessario “punto di vista” critico e quindi distruggeva le differenze, inevitabili, tra le varie culture.
Se tutte le “culture” sono uguali, allora non è possibile nemmeno analizzarle e gerarchizzarle in una sequenza di valori.

Una cosa simile è accaduta in politica estera. Gli Stati Uniti hanno reagito all’11 Settembre con l’attacco all’Afghanistan, safe haven di Al Qaeda, ma hanno combattuto il visibile e non l’invisibile, hanno visto il terrorismo, che c’era certamente, ma non l’innesco del jihad globale, partito da Al Qaeda, ma inseritosi poi nel contrasto geopolitico islamico tra sciiti e sunniti, tra egemonie in espansione nel Golfo Persico, gestite da Teheran; e la proiezione di potenza, petrolifera e militare, dell’Arabia Saudita e degli Emirati.

Henry Kissinger ha recentemente scritto sulla questione, insieme a George Schultz: i teorici tedesco-americani sostengono, infatti, che la proliferazione nucleare è ormai diffusa in tutto il Medio Oriente e, a parte il recente accordo tra il P5+1 e l’Iran, tutto ciò implica un diverso modo di considerare la deterrenza e il concetto stesso di stabilità, che Kissinger non vede applicato correttamente al quadrante mediorientale, almeno da parte degli Stati Uniti.

È vero: gli accordi non si fanno sulla buona volontà dei contraenti, ma prevedono un equilibrio oggettivo tra le parti, indipendentemente dalle posizioni dei governi, che passano, e degli interessi geostrategici, che rimangono fissi.
Un altro caso di closing of the american mind, potremmo dire.
Difatti, l’America di Barack Obama sembra quasi abbandonare i choke point che controllano il territorio arabo-islamico e quello marittimo europeo, nel Mediterraneo orientale, a favore di una proiezione di potenza verso l’Asia Centrale, volta al contenimento della Federazione Russa e alla tenuta dello status quo con la Cina.

Mosca non vuole perdere la corona di Paesi “amici” verso la penisola eurasiatica, che le servono per terminare proprio quel Progetto Eurasia che è nella mente dei geopolitici più vicini al presidente Vladimir Putin.
Una nuova guerra fredda sarebbe inutile e dannosa per tutti, compresi gli Stati Uniti, che peraltro sanno bene che la Cina, se vende i suoi asset del debito pubblico statunitense, che valgono oggi 49,2 miliardi di dollari, può causare danni gravissimi all’economia di Washington, mentre il riacquisto dei bond nordamericani da parte del Giappone non pareggia ancora il potenziale cinese.

E i dati, oggi, non sono nemmeno del tutto affidabili, data la varietà di spot finanziari nei quali sono detenuti i titoli e la maturità delle loro scadenze.
Una minaccia debole da parte degli Usa verso Pechino, quindi, e una tensione sui confini europei verso Mosca che può rispondere, e lo ha già fatto, con la sua politica verso l’Artico e nelle sue operazioni prima in Ucraina e ora in Siria.

Putin, riguardo alla guerra contro il Daesh (o Isis), è stato chiaro e brutale: “chi rompe paga”, ricordando agli americani e ai loro alleati europei che si destabilizza una regione deve sapere chi, cosa e come va a sostituire i regimi abbattuti.
Una potenza necessaria, gli Usa, che si allontana dall’Europa, la fraziona in due sui confini russi, e chiude lo spazio alla Russia putiniana, che potrebbe essere invece un atout nella lotta contro il jihad globale.

Un tradizionale progetto atlantico che si spezza per favorire un irraggiamento Usa di tipo circolare e universale, ma che implica un basso livello di deterrenza su tutti i punti del globo in cui si trovano Forze armate statunitensi. Nuovi alleati per Washington, nei vecchi Paesi ex-Patto di Varsavia, e scarso interesse per la stabilità del Mediterraneo, lasciato al Southern Flank della Nato e agli alleati regionali, sempre più deboli, sempre più in crisi economica, sempre meno adatti a contrastare una dottrina complessa come quella del jihad permanente.

E l’Europa? Stiamo ancora peggio. L’Ue è nata con la Ceca, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, nata nel 1951 a seguito degli accordi di Roma, che metteva in comune i due materiali che, dalla Guerra dei Trent’Anni in poi, avevano innescato il lunghissimo confronto tra le nazioni del Vecchio Continente che lo aveva infine distrutto, con due guerre mondiali che erano, di fatto, “guerre per l’egemonia europea”.

E che avevano causato, ricordiamolo, la vittoria dei bolscevichi in Russia, ormai non più baluardo ad Est del Vecchio Continente, e la distruzione dell’Impero Ottomano, antemurale dell’area mediterranea verso il mondo islamico, che la Sacra Porta di Istanbul controllava benissimo.
Da quel momento in poi, la Cee e poi l’Ue hanno progressivamente anestetizzato la loro componente geostrategica per divenire una grande alleanza economica tra concorrenti, realizzatasi poi con l’entrata in vigore della moneta unica.

L’Euro era, nella visione di Mitterand e della Thatcher, il Marco tedesco che la Germania dava in pegno ai suoi alleati-concorrenti per avere la possibilità di riunirsi con la vecchia Germania Est sotto tutela sovietica.
Dal punto di vista strategico, non vi è stato altro pensiero che operasse nel Vecchio Continente.
Non si trova in Ue una sola dottrina della guerra economica, mentre perfino il Daesh la fa contro il dollaro, tramite il suo “dinaro d’oro” di recentissima coniazione, ma la ripetizione ad nauseam della necessità di “aprire i mercati globali”. Una cosa che si fa con la forza e che si impone con una moneta universale, il che non è il caso dell’Euro.

La quale moneta unica europea è stata un evidente fastidio per gli Usa, che l’hanno vista come concorrente nelle transazioni globali, senza peraltro capacità di fare davvero paura al dollaro.
Ogni Paese europeo, poi, fa le sue azioni aggressive sui mercati internazionali per conto proprio, facendosi concorrenza sul mercato degli investimenti e delle vendite dei debiti pubblici al miglior offerente, ma tutto è inevitabilmente denominano nello stesso Euro.

La crisi dell’immigrazione è stata vista in Europa come un semplice fenomeno umanitario, non come una trasformazione geopolitica e culturale epocale, mentre la Germania si prende i migliori immigrati dalla Siria e gli altri l’emigrazione a basso tasso di formazione proveniente dall’Africa.
Non un pensiero, abbiamo visto, sugli effetti politici futuri di questa trasformazione demografica, che implicherà una diversa configurazione della rappresentanza democratica, delle istituzioni, del welfare, delle stesse Forze Armate e della Sicurezza.

Anche qui, un closing of the european mind. Cina, Russia, per alcuni versi il Giappone, l’India, e potenze in fieri come il Brasile e il Sudafrica sono, nella attuale dottrina di Pechino, una delle piattaforme multilaterali più importanti, secondo i termini del diciottesimo congresso del Partito Comunista Cinese.

La Cina vuole trasformare il vecchio duopolio mondiale in un equilibrio multipolare dove Pechino, come voleva Mao, è il punto di riferimento del vecchio “Terzo Mondo”.
La Federazione Russa vuole emergere, in questo quadro multipolare, dove gli Usa non hanno ancora deciso davvero cosa fare, come il pivot eurasiatico, ricostituendo una egemonia in Asia Centrale, in rapporto con la Cina, e prendere gli spazi in Europa Occidentale che gli Usa lasciano vuoti.

L’India vuole essere il controllore dei mari asiatici e il broker della pacificazione-democratizzazione dei punti critici in Asia Centrale, come il Bengala e l’Afghanistan. In concorrenza con il Pakistan, ormai sempre più legato al carro cinese.
Insomma, i nostri vecchi poli di attrazione come la Nato, la Ue, e tutti gli altri accordi internazionali seguiti alla seconda guerra mondiale, sono in fase di decadenza a meno che non li riscriviamo adattandoli alla nuova realtà.E se noi non lo faremo, lo faranno gli altri, con tutte le opzioni della guerra non convenzionale: immigrazioni di massa, guerra monetaria, terrorismo, guerre locali, blocchi commerciali, economie di sostituzione. Pensiamoci in tempo.

Ecco come la geopolitica del terrore incide sugli equilibri globali

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