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Il mondo si presenta, alla metà del secondo decennio del XXI secolo, come una polveriera infiammata. Ovunque si manifestano focolai che alimentano la consapevolezza, ormai divenuta ricorrente, che si sta vivendo una sorta di conflitto mondiale anarchico incontrollato. Per questo motivo, come ben sappiamo, papa Francesco ha definito lo scenario presente una “guerra mondiale a pezzi”, vale a dire una belligeranza distribuita a macchia di leopardo un po’ in tutti i continenti.

E’ interessante domandarsi, dunque, quale sia la visione, l’atteggiamento e il ruolo che intende svolgere la più antica diplomazia del mondo, vale a dire la Santa Sede. E una risposta ci è fornita dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin in una magistrale Lezione che ha tenuto l’11 marzo scorso all’Università Gregoriana di Roma.

Si tratta di un intervento per nulla improvvisato, sebbene legato alla circostanza accademica, e soprattutto estremamente chiaro nel rivelare il punto di vista corretto in merito ad una questione tanto delicata dal punto di vista etico e politico.

Il prelato offre una definizione del presente, contraddistinto dall’essere un periodo di “disordine, conflitti interni, guerra, tensioni ideologiche e religiose, odio razziale, ma anche povertà, cambiamenti climatici, fame, risorse naturali…”.

Il parametro di orientamento permanente della diplomazia ecclesiastica è l’idea di pace, una specie di contraltare valoriale. Con la parola Pax non si vuole indicare, tuttavia, una banale aspirazione utopica che ponga il ragionamento fuori da ogni tipo di valutazione concreta, ma una consapevolezza ideale che si manifesta unicamente con la presa di coscienza personale del valore che ha tutelare e garantire unità al mondo e sopravvivenza alle persone che vi vivono all’interno. Insomma Pax est salus societatis, come diceva Tommaso d’Aquino.

Parolin si volge così all’aspetto più strettamente giuridico che la Chiesa Cattolica incarna a livello particolare, come istituzione religiosa e come Stato sovrano, e a livello generale, come organismo di diritto internazionale. Da un lato, infatti, vi è la Chiesa presente nei territori e all’interno della giurisdizione di tanti Stati sovrani, nei quali agiscono i vescovi e le singole comunità. Dall’altro vi sono i Legati pontifici che proteggono la libertas Ecclesiae in senso internazionale con la funzione che la Santa Sede svolge nel consesso delle Nazioni Unite, nel quadro del sistema intercontinentale complessivo.

La Chiesa è insomma un soggetto che deve agire pienamente, sia direttamente e sia indirettamente, all’interno degli Stati, come parte democratica di essi, e al di fuori degli Sati, come singolo Stato sovrano. In tal modo, soprattutto in un contesto di diffusione della violenza come quello attuale, la diplomazia del Papa si fa promotrice, al contempo, dei diritti fondamentali di tutto il genere umano, e delle libertà effettive e specifiche dei singoli cristiani.

Parolin spiega quanto sia vitale pertanto formulare un giudizio adeguato sul significato del diritto ecclesiale in situazione di conflitti.

Vi è uno ius ad bellum, che è utilizzato per comprovare eventualmente l’uso legittimo della forza. Vi è uno ius in bellum, con il quale invece si tendono a garantire diritti umani nel caso di una belligeranza attiva. Ma vi è uno ius post bellum, per mezzo del quale si deve operare e cooperare alla ricostruzione del tessuto sociale ed economico, oltre che umanitario, dopo la fine di un contenzioso armato.

La Chiesa, quindi, non ha una visione banalmente pacifista. Parolin spiega che la concordia humanitatis è un fine ultimo; ma il Vaticano non può non tener conto, anche sulla base di una sua bimillenaria esperienza, che le violenze non saranno estirpate mai completamente dal pianeta. Anzi il passaggio da un “terrorismo delocalizzato”, come quello di Al Qaeda, ad uno “extraterritoriale” e statale, come quello dell’Isis, rendono impellente una presa di posizione militare, talvolta purtroppo anche preventiva, contro la crescita dei seminatori di morte.

Parolin conclude la sua lezione, parlando di una “umanizzazione della guerra” che costituisce un obiettivo realisticamente prioritario e urgente dal punto di vista etico per la comunità internazionale.

In questo senso la pace, intesa come espressione morale di un’aspirazione alla soluzione diplomatica e all’esclusione della violenza come strumento lecito, traduce lo ius contra bellum in una pluralità di sfondi diplomatici, non escludendo del tutto, neanche nella logica ecclesiastica, la necessità e l’opportunità dell’impiego etico della forza per garantire sopravvivenza e libertà a persone inermi e a minoranze perseguitate altrimenti impossibili da tutelare.

Papa Francesco, non a caso, ha messo al centro del suo Pontificato il prossimo Giubileo Straordinario della Misericordia, che inizierà l’8 dicembre di quest’anno, muovendosi esattamente in tale prospettiva spirituale e globale. Risvegliare il senso di pace presente in ogni essere umano e promuovere la vigile attivazione di una diplomazia che aiuti a difendere la civiltà dalle barbarie, quando esse diventano organo di distruzione di massa, è, in buona sostanza, la funzione internazionale che la Chiesa assume su di sé per il bene di tutti i popoli della Terra.

La diplomazia della Chiesa nella guerra globale

Il mondo si presenta, alla metà del secondo decennio del XXI secolo, come una polveriera infiammata. Ovunque si manifestano focolai che alimentano la consapevolezza, ormai divenuta ricorrente, che si sta vivendo una sorta di conflitto mondiale anarchico incontrollato. Per questo motivo, come ben sappiamo, papa Francesco ha definito lo scenario presente una “guerra mondiale a pezzi”, vale a dire una…

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