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La prima di teatro in musica più importante della settimana e forse del mese è l’allestimento a Bologna di “Jenufa” di Leoš Janáček. Sarà in scena dal 17 al 23 aprile. E’ una coproduzione internazionale importante in cui il Teatro Comunale collabora con il Théâtre de la Monnaye di Bruxelles e con il Bolshoi di Mosca nel mettere in scena il primo capolavoro dell’autore moravo. Un’opera sino a pochi anni fa sconosciuta in Italia, ma vista almeno alla Scala, a Trieste, Napoli e Spoleto.

La regia e le scene son affidate a Alvis Hermanis, direttore del Teatro di Riga che ha recentemente trionfato a Salisburgo ed alla Scala con Die Soltaden a Berlino con “Così Fan Tutte” e di nuovo a Salisburgo con Il Trovatore. I costumi di sono di Anna Watkins. In buca l’orchestra è diretta da Juraj Valčuha. Nel cast ci sono Andrea Dankova e Ira Bertman nel ruolo del titolo; Angeles Blancas Gulin è Kostelnička Buryjovka; Ales Briscein nel ruolo di Števa Buryja; Brenden Gunnell e Jan Vacik si alternano nella parte di Laca Klemeň.

Nato nella cittadina di Příbor in Moravia (dove è nato anche Sigmund Freud), nel 1854, Leoš Janáček visse quasi tutta la vita a Brno, capitale della regione allora parte dell’Impero Austro-Ungarico, ed oggi parte meridionale della Repubblica Ceca. Brno è a circa metà strada tra Vienna e Cracovia – il cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la Grande Guerra apportò i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici. Lì vi era il carcere dove è stato Silvio Pellico.

Per decenni, Janáček fu essenzialmente un didatta e compose principalmente musica dello spirito o ispirata a tradizioni locali (nonché di un’opera in atto ancor oggi raramente messa in scena). A 50 anni circa, nel 1904 (quasi contemporaneamente alle prime di “Madama Butterfly” di Puccini e di “Salome” di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del maggior caffè di Brno venne rappresentato il suo primo capolavoro “Jenufa” – oggi la città dispone di tre teatri di cui il maggiore (1.300 posti) porta il nome del compositore -. La partitura di “Jenufa” era stata respinta dal Teatro Nazionale di Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916, in piena prima guerra mondiate, dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura.

“Jenufa” diventò un successo europeo in seguito alla rappresentazioni a Vienna nel 1918 (proprio mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janáček sono state eseguite per decenni, al di fuori della Moravia).

® Rocco Casaluci 2015
® Rocco Casaluci 2015

 

Janáček visse sino al 1928; nell’ultima fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazioni ebbe meritatissimi riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione all’Accademia Prussiana delle Arti). Per quanto, tra le “scuole” della piccola Brno, si considerasse vicino a quella musicale sviluppò un linguaggio modernissimo che, al di fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente dopo la seconda guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras, James Conlon e Jan Lothar-Koenig. Nella New York degli anni Settanta, i lavori di Janáček trovavano casa alla City Opera, considerata tra lo sperimentale e il popolare, non al Metropolitan.

La fortuna Janáček in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica) di “Jenufa” ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena. Per Kátia Kabanová ci volle il coraggio del Maggio Musicale Fiorentino nel 1957. L’anno dopo, La Scala allestiva La volpe astuta; nel 1963, la Sagra Musicale Umbra proponeva, al Morlacchi di Perugia Da una casa di morti nel 1966; nel 1967 era ancora Firenze a scommettere su “L’affare Makropulos” e su “Le avventure del Signor Brouceck”. Si trattava, di solito, di esecuzioni non sempre nella lingua. Si perdeva, quindi, l’impasto tra musica e testo (rigorosamente in prosa) centrale alla struttura musicale di Janáček.

Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea Gavezzani e Fedele D’Amico “avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale”.

Negli anni Cinquanta, Mila ha anche detto: se Janáček fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli anni Settanta, le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni critiche frutto. Adesso, anche in Italia Janáček è riconosciuto, con Strauss e Britten, tra i tre massimi autori del teatro musicale del Novecento.

Nell’estate 2004, a cento anni dalla prima esecuzione della sua opera più nota, “Jenufa”, due festival italiani sono imperniati sui lavori e sulla figura del compositore moravo Leoš Janáček. Al Ravenna Festival, un’intera sezione (7 – 9 luglio) gli è dedicata: l’Orchestra Filarmonica Slovacca ed il Coro Filarmonico Slovacco vi hanno presentato la Sinfonietta, La Messa Glagolitica (ossia in antica lingua morava) ed un concerto di musica corale; il quartetto Pražák ha eseguito la Sonata a Kreutzer e le Lettere Intime. Al Cantiere d’Arte di Montepulciano (30 luglio-8 agosto), buona parte del programma è stato affidato alla Young Janáček Philharmonic Orchestra, un organico di giovani formato da Jan Lothar-Koenigs raccogliendo strumentisti da tutta Europa, nonché specialmente dedicata all’opera del compositore moravo. Vi sono state proposte, oltre alla Messa Glagolitica ed alla Voix Humaine di Francis Poulenc (monodramma, in gran misura, ispirato a Janáček), due composizioni raramente eseguite in Italia: il Diario di uno scomparso e Gioventù, il sestetto di fiati in cui ai rievoca la spensieratezza degli anni da studente.

Pure in Patria, il successo è stato tardivo: “Jenufa” – si è detto – è stata allestita in modo approssimativo a Brno (al cui conservatorio insegnava) quando Janáček aveva 50 anni ed, in forma mutilata, a Praga quando ne aveva quasi 62. Le difficoltà erano di natura estetica. In una piccola nazione (la Moravia) di quello che allora era un grande Impero, la corrente di moda della musica colta guardava al passato: una combinazione di nazionalismo e di wagnerismo. Janáček, invece, voltava le spalle al ceppo tedesco e si rivolgeva al mondo slavo e alla musica contadina. Rifiutava il verso: come, dopo di lui, Berg e Poulenc, optava per una prosa in cui la musica e la parola fossero fuse; tagliava drasticamente i drammi in modo che i tre atti rituali fossero contenuti in non più di 90 minuti complessivi; prendeva a prestito le tecniche di quello che allora era la nuova forma di spettacolo (con pretese di arte).

Per “Jenufa”, Hermanis sceglie una doppia chiave di lettura, incorniciando la drammatica vicenda della narrazione in un’allegoria permeata di riferimenti al Liberty e all’Art Nouveau, movimenti artistici contestuali al periodo in cui Janáček compose il lavoro. A rendere questa nuova produzione un evento di ancor più straordinario interesse è la direzione d’orchestra affidata a un grande interprete di questo repertorio quale Juraj Valčuha.

Jenufa di Leoš Janáček al Teatro comunale di Bologna

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