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“È stata una conferenza stampa per rassicurare la destra più che sul futuro dell’Italia”, pontifica Nicola Zingaretti, chiamato a commentare, sulle pagine del Corriere, la conferenza stampa di Giorgia Meloni. In questo subito smentito da Mario Monti che, a LA7 durante la trasmissione Che tempo che fa, esprime invece un giudizio completamente diverso: “L’ho osservata dal punto di vista del linguaggio e devo dire, non so se le farà piacere, ho riscontrato in lei una espressione estremamente concisa e concreta. È una politica pura ma parla come un manager, ma qui rischiamo di offenderla troppo, tecnico”.

Che lo schieramento avverso – Monti non ce ne voglia, ma il suo governo aveva avuto una grande vicinanza con la sinistra italiana – faccia pace con sé stesso. Cerchi di giungere a un giudizio univoco, che è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, su cui tentare di costruire un’eventuale alternativa. Che nello schieramento di destra le posizioni siano diverse è fin troppo evidente. Basti leggere l’editoriale di Antonio Polito sempre sul Corriere. Il problema è solo capire dove finisce la diversità di posizioni politiche e dove inizia, invece, la pura e semplice concorrenza tra i leader. In particolare, la voglia di Matteo Salvini di primeggiare. E se non sia questa pur legittima esigenza a guidare la costruzione delle relative piattaforme di merito, da un sapore pregiudizialmente antagonista.

Logica di un sistema politico frammentato. Che, tuttavia, non è solo prerogativa italiana. In Francia la concorrenza è altrettanta aspra tra una destra e una sinistra, entrambe radicali, che puntano a rovesciare il traballante scranno di Emmanuel Macron. In Germania è la stessa cosa. Le nuove regole del Patto di stabilità non sono state costruite per affrontare i drammatici problemi dei grandi cambiamenti della geopolitica mondiale, al fine di garantire all’Europa uno spazio adeguato. Obiettivo del compromesso finale, che manda al macero gran parte delle proposte della Commissione, è stato quello di impedire, alle prossime elezioni europee, la definitiva defenestrazione del capo del partito liberale, nonché ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner. Da tempo insidiato da destra da Alternative für Deutschland. E quindi costretto a dimostrarsi più realista del re. Più rigido di uno stoccafisso.

Per non parlare, infine, della stessa Spagna, dove Pedro Sánchez è riuscito a battere i popolari, alleati con Vox, ma solo dopo essersi alleato con gli indipendentisti catalani. Mettendo così a rischio la stessa unità del Paese. Mentre sull’altra sponda dell’Atlantico, le incertezze del prossimo novembre, quando si svolgeranno le nuove elezioni presidenziali americane, sono già tali da dare spazio alle più fosche previsioni.

Come si vede ogni Paese, e all’interno delle relative comunità politiche, ogni schieramento ha la sua croce. Guardare quindi solo al proprio competitor è cogliere la pagliuzza nell’occhio del proprio vicino, ma non vedere la trave in quello dei propri possibili alleati. Che nel caso italiano, almeno a sinistra, non si sa nemmeno chi siano. Il cosiddetto “campo largo” non è mai esistito. È stato, al più, un elemento evocativo, destinato soprattutto a scatenare la reazione negativa dei possibili interessati. Pronti a rovesciare il tavolo, ponendo prima di tutto il tema dei possibili contenuti. Foglia di fico evidente. Per cui in base a questo principio, in una votazione qualificante, come quella relativa alla ratifica del Mes, la maggioranza possibile sarebbe stata una riedificazione di quella gialloverde tra la Lega e il Movimento 5 Stelle.

Nessuno scandalo, per carità. Solo il sintomo di un travaglio, che andrebbe come minimo investigato. Il rischio della frammentazione non è un fenomeno solo italiano o europeo. Riflette una realtà che, dopo un lungo periodo di accumulo, legato ai processi di globalizzazione, ha subito una drammatica accelerazione sul piano politico. Di cui la nuova strategia militare di Vladimir Putin, ne è, purtroppo, drammatica testimonianza. Le forze più avvertite dell’Occidente di questo problema dovrebbero farsi carico. Dovrebbero, nell’elaborare le proprie strategie politiche, tenere conto del più forte condizionamento internazionale e, quindi, ricercare quelle piattaforme unitarie in grado di preservare il proprio posizionamento, ma soprattutto rafforzare la posizione del proprio Paese.

Assistere invece al muro contro muro: alla contrapposizione sistematica su ogni aspetto della vita politica. Allo scontro all’arma bianca su qualsiasi micro-questione, come se ci trovassimo, ogni volta, di fronte a qualcosa di risolutivo. Al ritorno sistematico di vecchi scontri ideologici, come se il Novecento non fosse mai finito. Tutto questo è, al tempo stesso, inutile e stucchevole. È accapigliarsi, da semplici sonnambuli, sulla tolda del Titanic.

Si parla tanto di un prossimo confronto tra le due donne della politica italiana – Meloni da un lato, Elly Schlein dall’altro – che sia un confronto per gettare le basi di qualcosa d’inedito. In grado di cogliere le preoccupazioni più profonde relative ai mutamenti in atto negli equilibri mondiali ed europei. E i loro riflessi sulla realtà nazionale. E non la riedizione del vecchio canovaccio dei romanzi di Giovannino Guareschi. I cui principali personaggi, don Camillo e l’onorevole Peppone, una loro dignità comunque l’avevano e la dimostravano.

Il muro contro muro della politica italiana è inutile e stucchevole. La versione di Polillo

Si parla tanto di un prossimo confronto tra le due donne della politica italiana. Che sia un confronto per gettare le basi di qualcosa d’inedito, non la riedizione del vecchio canovaccio dei romanzi di Guareschi. Il commento di Gianfranco Polillo

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